Marameo ai giudici

Dalla Rassegna stampa

 

Non era semplice, ma si sono messi d’impegno e alla fine ce l’hanno fatta: a furia di tirare la giacca a Giorgio Napolitano, un giorno blandendolo e l’altro attaccandolo, Repubblica, Antonio Di Pietro e il mitico "popolo viola" sono riusciti a gettare il capo dello Stato tra le braccia di Silvio Berlusconi.
Incredulo per tanta generosità, il premier incassa e si prepara a capitalizzare il risultato avviando subito la seconda fase della legislatura, quella delle riforme. Nuove regole per le intercettazioni, innanzitutto. Poi la giustizia, l’«aumento dei poteri dell’esecutivo», annunciato ieri sera, e tutto il resto, fisco incluso. A questo punto, davvero, Silvio Berlusconi non ha più scuse.
Di tutti i via libera dati dal Quirinale al governo, la firma messa ieri sul legittimo impedimento è quello politicamente più pesante. Il disegno di legge, approvato in via definitiva dal Senato il 10 febbraio e destinato a entrare in vigore in tempi brevissimi, prevede che il presidente del Consiglio e i ministri possano non presentarsi ai processi in veste di imputati qualora "legittimamente impediti" dagli impegni istituzionali. La norma sarà valida per 18 mesi, entro i quali dovrà essere approvata una legge costituzionale che stabilisca le prerogative del presidente del Consiglio e dei ministri. In parole povere, per almeno un anno e mezzo Berlusconi sarà al riparo dai processi che lo riguardano, primi tra tutti quello per il caso Mills e quello per le presunte frodi fiscali Mediaset. Durante questo periodo avrà modo di sottrarsi definitivamente a quella che lui ritiene una persecuzione politica messa in atto dalle «toghe rosse» nei suoi confronti. Certo, prima o poi la legge per il legittimo impedimento finirà davanti alla Corte Costituzionale, per iniziativa di qualche procura o dei rivali del Cavaliere.
Ma il sogno della sinistra e di parte della magistratura di risolvere il problema (cioè Berlusconi) per via giudiziaria anziché politica è tramontato. Forse per sempre, di sicuro per un lungo periodo. Poche volte, in politica, vincitori e vinti sono stati chiari come adesso. Berlusconi ha stravinto. Anche se la sigla di Napolitano non è di per sé un giudizio definitivo di costituzionalità, è chiaro che il presidente della. Repubblica non ha trovato motivi per rimandare alle Camere il provvedimento.
Cosa che invece gli avevano chiesto di fare i nemici del premier, i veri sconfitti di questa partita. Dopo che il Quirinale aveva rimandato indietro la nuova legge sul lavoro, chiedendo di modificarla in parte, Marco Travaglio aveva subodorato il rischio di una fregatura e sul Fatto del primo aprile aveva scritto: «A pensar male si fa peccato ma spesso ci s’azzecca: non vorremmo che il capo dello Stato avesse dato un contentino ai critici respingendo una legge che non riguarda B., e ora si preparasse a promulgare tranquillamente quella molto più indecente che salva B. dai processi». Dal punto di vista di Travaglio e di quelli che la pensano come lui, è proprio in questo modo che è andata.
Così, nel giro di dieci giorni, il Cavaliere ha incassato la seconda vittoria, dopo quella conseguita alle elezioni di fine marzo. Adesso non solo ha la legittimazione popolare - Berlusconi aveva, chiesto il voto alle regionali per fare le riforme ma anche il tempo per dedicarsi all’ammodernamento del Paese: non potrà più sostenere che stare dietro ai suoi processi gli porta via dieci ore al giorno. Le sue responsabilità nei confronti degli elettori aumentano.
Il Pd, a questo punto, deve decidere cosa fare da grande. E’ chiaro che la strada della delegittimazione e dell’insulto al premier non porta da nessuna parte: non smuove gli elettori, come si è visto dal risultato delle regionali, e non condiziona Napolitano. Il quale resta uomo della sinistra, politicamente e antropologicamente agli antipodi rispetto a Berlusconi, ma appare interessato solo a garantire un clima di più o meno civile convivenza tra i poteri dello Stato e tra la maggioranza e l’opposizione. Chi confida in lui per demolire il Cavaliere riceve delusioni. Berlusconi in questi giorni ostenta la magnanimità del vincitore e offre la mano all’opposizione: discutiamo insieme su come cambiare le regole, dice alla sinistra. Appare persino disposto a rinunciare al presidenzialismo versione "hard", quello in cui il presidente-primo ministro è eletto direttamente dal popolo, per un semi-presidenzialismo alla francese, più "soft", in cui il presidente della repubblica, scelto dai cittadini, è figura distinta dal capo del governo. Molto più in là di qui, però, non intende andare. I messaggi che mandano i suoi uomini sono molto chiari e riflettono le intenzioni del premier: nessun potere di veto all’opposizione, nessuna richiesta ultimativa,
nemmeno sulla legge elettorale, che qualcuno nel Pd vorrebbe cambiare per introdurre di nuovo le preferenze.
Rinunciato al sogno di rimuovere il rivale grazie all’intervento dei giudici, Pier Luigi Bersani adesso è a un bivio. Da un lato sedersi al tavolo con Berlusconi, discutere delle riforme come chiede anche il Quirinale, proporre qualcosa sapendo di non potere ottenere più tanto. Con la certezza che tanti elettori, nutriti da anni di antiberlusconismo viscerale, non gli perdoneranno l’approccio col Nemico e punteranno su Di Pietro o sui nuovi movimenti di Beppe Grillo. Dall’altro rifiutare il dialogo, trincerarsi sul fronte degli sdegnati, attaccare le novità di Berlusconi e puntare tutto sui referendum per affossare le riforme
- costituzionali e non - varate da governo e maggioranza. Ma è una scelta che appiattirebbe il Pd sull’Italia dei Valori, che quando si tratta di lucrare sull’antiberlusconismo è ritenuta motto più credibile. Ed è un rischio: di solito i referendum Berlusconi li vince. In un caso come nell’altro, se il presidente del Consiglio tira dritto sulla, strada delle riforme finisce per fare davvero male al partito di Bersani.

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