Via le manette dal Pd

Dalla Rassegna stampa

Il fallimento della congiura ribaltonista ha aperto una fase critica tra le opposizioni e in particolare in quella più numerosa, che in questa convulsa partita ha giocato un ruolo sostanzialmente subalterno. Ora Pier Luigi Bersani punterà a ricompattare il gruppo dirigente del suo partito sostenendo l’ipotesi, assai avventurosa, di una trasformazione dell’insieme assai articolato delle opposizioni in un’alleanza politica alternativa a quella del centrodestra. È solo propaganda, ma servirà per arrivare a gennaio senza troppe scosse. Se invece la prospettiva del Pd superasse l’orizzonte di una manciata di settimane, questa sarebbe l’occasione buona per rispondere a muso duro alle provocazioni ultimative di Antonio Di Pietro, il che consentirebbe a un Pd smanettato di muoversi con una certa libertà nel complesso gioco politico che si è aperto. Massimo D’Alema ha chiaro che l’ipotesi di un’alleanza con i centristi ha come ostacolo insuperabile non tanto la fraseologia paradannunziana del governatore pugliese, ma l’accanimento persecutorio della pattuglia giustizialista. È  lo stesso D’Alema che aveva resuscitato Di Pietro nel Mugello, ma deve essersi reso conto di quanto sia costato quel tentativo di assorbimento trasformatosi nel tempo in una pesante ipoteca politica.
 
 Di Pietro ha intimato a Bersani di scegliere tra lui e Pier Ferdinando Casini entro quarantott’ore, minacciando altrimenti di correre da solo o insieme a Nichi Vendola in elezioni che in realtà non sono affatto certe. Un partito a vocazione se non maggioritaria almeno autonoma lo avrebbe già preso in parola. D’altra parte mantenere il legame con i giustizialisti blocca sul nascere qualsiasi strategia di alleanze basata su un programma effettivamente riformista. Con ogni probabilità, invece, Bersani insisterà sull’idea di un accordo impossibile tra tutte le opposizioni, per evitare una scelta che aprirebbe contrasti laceranti, ma il costante rinvio del confronto tra le diverse opzioni possibili spinge la leadership democratica nel vuoto di una autoproclamazione di centralità che non convince nessuno, a cominciare dagli aderenti al partito, e rende giustamente diffidenti tutti i potenziali alleati.

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