Il male inevitabile

E’ il rimprovero che più spesso ci viene rivolto, la critica, o l’esortazione, che ci accompagna da sempre. «Voi giornalisti sapete solo vedere e raccontare il male». Se queste parole arrivano però da Sua Santità in persona, occorre ancora una volta - e non sarà l’ultima - spiegarsi. Forse.
Confesso, intanto, di non trovare per nulla assurda o esagerata la reazione contro il male che ogni giorno gronda su di noi dai media.
Per un giornalista, aprire gli occhi al mattino e accendere la tv, e scartare il pacco dei giornali, è il primo gesto, una preparazione rituale della professione, la nostra preghiera laica del mattino, secondo Hegel, che da anni ormai io stessa anticipo con una stretta allo stomaco. Qualcuno, nelle ore che abbiamo rubato al generoso oblio del sonno, è morto, qualcun altro ha provocato danni, qualche maggior pericolo - psicologico, politico, pratico - sta scavando nella nostra vita. La tentazione c’è, di prendere la direzione che sembra indicare il Santo Padre: richiudere gli occhi, mettere da parte giornali, tv e avviarsi a un giorno normale, in cui le cose e i rapporti - senza il rumore di fondo dei media - spiccano come gioielli nelle loro scatole di velluto. Nei rari giorni in cui i media, per feste o per scioperi, non ci sono, la vita appare più tersa, e più vivibile. Per questo, quando tanti ci dicono che il nostro mestiere sta avvelenando il mondo e che noi siamo una banda di cinici, ascolto sempre. Nel mio cuore gli do ragione.
Potremmo dunque assumere questa lezione. E potremmo limitarci a voler sapere e raccontare solo di quel che ci rasserena e di quel che ci lega agli altri uomini, piuttosto che quel che ce ne divide. Potremmo ridurre il male a una breve, accennarne e pudicamente subito ammantarlo di veli. Potremmo invocare per questa pudicizia la preservazione dell’innocenza e della fiducia negli altri. Avremmo, ripeto, ragione e, forse, vivremmo meglio.
Ma sarebbe questa una vita piena? Sarebbe questa una scelta davvero positiva? Su queste domande si inciampa.
Che il male esista non credo ci siano dubbi, neppure dal punto di vista religioso. Non è nei media, non è creato dai media, ma è nella costruzione stessa della realtà. Accantonarlo, non guardarlo negli occhi, non dargli nome e cognome, non è segno di maggiore sensibilità e civiltà. E, purtroppo, ignorarlo non ci restituisce nemmeno un nuovo senso di sicurezza.
I media non sempre hanno funzionato come oggi, con la crudeltà quasi da bisturi di penetrare le cose che oggi hanno acquisito. Nell’Ottocento i grandi giornali del mondo anglosassone, dove di fatto i media si sono sviluppati seguendo l’onda delle espansioni imperiali, erano ispirati dal cristiano senso del pudore e dalla missione di sostenere l’orgoglio della Nazione. Fu grazie a questa ispirazione che il mondo vittoriano poté a lungo non capire i suoi crimini imperiali. Ma fu sempre grazie alla rottura di quel pudore che quello stesso mondo riuscì a capire e correggere vari errori. Fra questi, le incompetenze di generali che il 25 ottobre del 1854 ordinarono la carica di Balaclava, in Crimea. I dispacci dei comandanti britannici dal fronte, che avevano mandato al massacro inutile una forza di eccellenza, e che si volevano tenere riservati, vennero pubblicati in un’edizione straordinaria della London Gazette il 12 novembre dello stesso 1854. Avremmo potuto dunque sorvolare, o seguire differentemente l’Iraq, l’Afghanistan, i Balcani, l’Iran, o la Cina, o l’Africa?
Ma forse il Santo Padre dice altro. Parla probabilmente del modo con cui parliamo di noi, delle società in cui viviamo. Queste società democratiche, che a volte nei media appaiono troppo aperte, troppo democratiche. Indugiamo troppo sui difetti di chi ci governa, seguiamo troppo la violenza sociale, le volgarità, si dice. Al punto da finire con il non farci credere più a nulla. Ripeto, può essere. E la goduria del lerciume è sicuramente il rischio.
Ma, nella sostanza, non guardare al male significa anche dare mano libera a tutti coloro che esercitano il proprio interesse, coloro che perseguono solo la propria individualità. E cosa è meglio, per tutti noi, sapere o no come si usano i nostri soldi, che rischi corriamo, come vengono educati i nostri figli, come vengono scritte o infrante le regole?
E’ vero, fa male vivere così. Ma girare gli occhi non significa vivere meglio, ma solo diventare delle vittime inconsapevoli. La migliore regola del giornalismo, che alla fine credo vale per tutti, è che una notizia buona per uno è una cattiva per un altro.
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