Mai così forte la pressione politica sul Presidente della Camera

Dalla Rassegna stampa

C'è qualcuno che pensa che la «questione giustizia» possa essere risolta una volta per tutte, magari dopo il chiarimento definitivo tra Berlusconi e Fini? Probabilmente no: nessuno è così ottimista. E per «questione giustizia» s'intende non la riforma complessiva dell'ordinamento giudiziario - obiettivo tuttora remoto -, bensì l'aspetto incombente e un po' ossessivo, la premessa di tutto: il tema del «salvacondotto giudiziario» per il premier. O se si preferisce, il nodo delle prescrizioni: come abbreviare la durata dei processi e quindi mandare in archivio un paio di procedimenti aperti contro il presidente del Consiglio.

Tema, come si capisce, tutto politico e non di tecnica giuridica. Come tale, suscettibile di coinvolgere il rapporto fra istituzioni. In particolare fra governo e Parlamento. E in qualche misura anche fra governo, Parlamento e presidenza della Repubblica, visto che il triangolo che garantisce l'equilibrio ha uno dei suoi vertici proprio al Quirinale.

In queste ore sul presidente della Camera, Fini, si sta esercitando una pressione senza precedenti. Gli si chiede di riconoscere e accettare la «ragion politica» in base alla quale il capo del governo ha diritto a una forma di immunità, sia pure sotto forma di prescrizione abbreviata. Un'immunità che gli permetta di sottrarsi all'accanimento dei magistrati nei suoi confronti: quel «golpe» bianco che pretenderebbe di rovesciare il risultato delle elezioni.

E' in questo clima che si svolge oggi l'incontro tra Fini e il premier. Non dovrebbe essere una notizia straordinaria, visto che si tratta di due esponenti dello stesso partito: anzi, dei due padri fondatori del Popolo della Libertà. In realtà, il fossato che li divide è ormai profondo. Uno, Berlusconi, dispone della legittimità che gli viene dalle urne; l'altro, Fini, rappresenta un'istituzione, il Parlamento, che ha visto negli anni più recenti restringersi il proprio spazio, ma che resta cruciale nell'assetto democratico.

Il leader ritiene di avere dalla sua la «ragion politica» e la forza del voto popolare. Il suo interlocutore si considera la voce delle istituzioni, il garante di un equilibrio complessivo. Sono le due anime di un centrodestra che sta attraversando il passaggio più difficile della sua storia. E forse è possibile prevedere come andrà il colloquio di oggi: nessuna rottura politica, ma nessun accordo chiaro.

La «questione giustizia» resterà aperta, in un modo o nell'altro, e continuerà a sprigionare veleno. Del resto, il tema della prescrizione è d'incerta soluzione proprio perché il salvacondotto per il premier non può tradursi in una specie di amnistia destinata a colpire le vittime di reati che non avranno mai un colpevole. E' quello che sostiene l'opposizione, ma lo dicono anche Fini e i suoi collaboratori (si veda la lettera di Giulia Bongiorno al «Corriere»).
C'è da chiedersi quindi quanto valga il richiamo alla solidarietà di maggioranza, la prova di fedeltà che il premier chiede ai parlamentari. E' vero che il presidente della Camera non intende ovviamente rompere il legame politico con Berlusconi e il Pdl. Ma la situazione è in rapido sviluppo e non favorisce un autentico «appeasement». Benché negato, l'intreccio fra la questione giudiziaria e le candidature alle regionali è nei fatti. Ieri sera ad esempio è scoppiato a Napoli l'affare Cosentino. Un tassello che sembrava in ordine è saltato. E proprio sul terreno scivoloso dei rapporti con la malavita.

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