Macaluso: Sciascia, il « comunista eretico»

Un'amicizia nata alla fine degli anni'30 a Caltanissetta. Due giovani, Emanuele Macaluso e Leonardo Sciascia, entravano nell'organizzazione clandestina del Pci, al quale però il futuro scrittore «non si volle mai iscrivere» pur continuando a votarlo (divenendo anche consigliere comunale di Palermo nelle elezioni del 1975), ritenendo che «la sua ed altre eresie potessero cambiare - nel partito ed anche in Urss - quel che non gli andava bene». Ciò che gli premeva era «un Pci di combattimento sempre all'opposizione» contro una Dc che lui identificava con il potere e che collegava alla mafia. A scorrere l'agile e scorrevole volume di Macaluso Leonardo Sciascia e i comunisti (Feltrinelli, pagine 160, euro 14,00), da oggi in libreria, emerge un rapporto travagliato, spesso burrascoso segnato da aspre polemiche e da rotture personali (come quella con Guttuso), tra un partito "di lotta e di governo" quale voleva essere il Pci e un intellettuale, scettico, "radicale" al quale le "larghe intese" non andavano bene perché «bisogna essere intransigenti. Bisogna evitare nettamente il gioco della doppia verità».
E in questo rapporto Macaluso, con non poca sofferenza personale, si sarebbe allineato alla strategia del partito (conservando però la sua amicizia con lo scrittore). Nel 1956, «pur comprendendo il dissenso di Di Vittorio sull'Ungheria, sostenni le posizioni di Togliatti e Li Causi». Quando sul finire degli anni '50, la crisi della Dc siciliana portò alla formazione del governo Milazzo sostenuto dalla sinistra e dalla destra, per Sciascia si era di fronte ad un'operazione «infettata da quella Dc che voleva cambiare tutto per non cambiare nulla», mentre per Macaluso, al vertice per partito, «quel governo non fu un atto di trasformismo, ma politico». Nei giorni drammatici del rapimento di Moro - il politico che, a suo giudizio, incarnava un partito privo di senso dello Stato - Sciascia affermava che non si potesse chiedere il sacrificio della sua vita. I comunisti invece erano per la linea della fermezza: «Ed io ritengo, ancor oggi, non avessero alternative». Il passaggio dello scrittore al Partito radicale (per il quale è eletto alla Camera nel 1979) era quasi la conseguenza naturale di un percorso dettato in alcuni aspetti dai suoi risentimenti nei confronti dei dirigenti del Pci. Nelle pagine del libro - e ne costituisce la parte centrale - tornano i temi cruciali della mafia e della giustizia.
Un articolo di Sciascia sul "Corriere della Sera" dal titolo I professionisti dell'antimafia ed altri suoi interventi avevano provocato reazioni durissime da parte di Nando Della Chiesa, di autorevoli giornalisti (da Scalfari a Pansa che scriveva di non riconoscersi più nel «mio Sciascia»), del comitato antimafia di Palermo «dietro il quale vi era il Pci». Su 'L'Unità' Macaluso scrisse un articolo critico nel quale affermava che la mafia poteva essere battuta solo con le leggi, con il garantismo, con la democrazia aggiungendo però che lo scrittore, in alcuni momenti, aveva ceduto «alla cultura del sospetto nei confronti del Pci».
Dalla ricostruzione di queste vicende all'oggi con il rapporto mafia e giustizia tornato prepotentemente nello scontro tra le forze politiche, Macaluso rileva che la strategia di Cosa nostra è cambiata: dall'attacco stragista alle istituzioni alla ricerca di rapporti con essa. A suo giudizio, mentre anche il ministro Alfano dichiara che l'Italia e la Sicilia avrebbero bisogno di una voce come quella di Sciascia, la sinistra farebbe bene a ripensare agli scritti dello scrittore sulle istituzioni e sul ruolo della magistratura, nei quali è «chiara e indiscutibile l'avversione radicale a leggi o ad atti amministrativi "ad personam", fatti anche con le migliori intenzioni». Ma dubita che ciò avvenga.
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