"L'ultimo orgoglio: i figli all'addio

Dalla Rassegna stampa

Adesso devo scoprire se qualcuno ha pagato la casa a mia insaputa, dice, e tutto finisce un’altra volta a palette e secchiello. Ci si guarda in faccia, nel parlamentino del ministero, e non ci si crede: «Ma abbiamo capito bene?». Si, abbiamo capito bene. La linea difensiva di Claudio Scajola è così scandita: «Se dovessi acclarare che la mia abitazione fosse stata pagata da altri a mia insaputa, senza saperne il motivo, il tornaconto e l’interesse, i miei legali eserciterebbero le azioni necessarie ad annullare il contratto». Per sostenere una tesi tanto estrema, e con la speranza che qualcuno l’accolga (senza intanto darsi risposte definitive sulla lucidità di chi l’ha partorita), bisognava che l’ex ministro fosse turbato almeno quanto la sua espressione facciale denunciava. Ieri mattina Scajola è arrivato alla conferenza stampa con una ventina di minuti di ritardo. Un ritardo apprezzato, poiché i giornalisti chiamati all’evento si erano incodati all’ingresso, in via Veneto, da dove venivano accolti nel ministero uno a uno, previo controllo di documenti e autocertificazioni, e si era ingannato il tempo con annoiato cinismo: «E’ più semplice fare un rogito che entrare qua dentro», ha gridato uno al carabiniere che presidiava l’ingresso. Si ironizza pessimamente, in queste occasioni. Un paio di cronisti si davano alla scenetta: «Oooh, è da un sacco che non ci vediamo»; «sì, dev’essere stato l’ultima volta che Scajola si è dimesso».
Ma tutto questo buon umore da scolaresca è svanito quando l’accusato, ed era quasi mezzogiorno, è entrato in aula pallido, sofferente - come egli stesso si è descritto - ed è rimasto all’insù, su richiesta dei fotografi, per il rito dell’istantanea che stavolta aveva un gusto sinistro. Poi Scajola si è seduto, e davvero tutti zitti, stavolta religiosamente, e si sarebbe scoperto poi che Scajola si era portato appresso i due figli come per un finale scatto d’orgoglio. Ma poi il rito è sembrato ben altro, più in linea con lo Scajola digrignante deciso a non cedere («non rifarò come nel caso Biagi», aveva detto quotidianamente fino a lunedì, riferendosi al 2002, quando lasciò il Viminale per aver detto «rompicoglioni» del giuslavorista ucciso) che con lo Scajola spettrale di ieri mattina, così dimesso da preannunciare contrizioni mai arrivate.
Così come aveva pensato di avvalorare la sua buona fede accreditando il giusto prezzo di 600 mila euro per 180 metri quadrati con vista sul Colosseo, allo stesso modo ieri - e che sprezzo del pericolo! - ha aggiunto la novità: se per davvero quella casa costò di più, e se per davvero qualcuno ci ha messo la differenza senza che me ne accorgessi, e magari per ricattarmi al momento buono, bè, mi rivolgerò all’avvocato. Per questo me ne vado, ha spiegato, perché non posso vivere da ministro con tale sospetto. E’ difficile spiegarsi, perché all’uomo dimissionario bisognerebbe tendere la mano, ma nell’interesse di Scajola sarebbe meglio se si trattasse di frottola: il bugiardo può farsi sincero, il fesso non può farsi volpe.
Il contorno era scontato: è un processo mediatico, è una gogna, non sono nemmeno indagato - come se un uomo politico, e per di più ministro, non avesse l’obbligo di rispondere agli elettori prima ancora che ai magistrati. Era un contorno scontato perché si portava dietro la sciapa rivendicazione della stima e della solidarietà del presidente del Consiglio e dei colleghi di maggioranza, ed era insomma un abbandono da vittima, un’ingiustizia a cui sottoporsi perché talvolta il destino vuole così.
E infine la cosa più pura, più genuina, è stato Scajola che si alzava e usciva, e sollevava le mani per dire non rispondo, mentre dietro i giornalisti urlavano: «Risponda alle domande, ministro! Risponda! Un ministro della Repubblica le deve accettare le domande!», ma lui no, lui che ministro non era già più.

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