L'ultima odissea

Dalla Rassegna stampa

“La tragedia greca": si aprono così i telegiornali, e forse non si accorgono nemmeno del doppio senso del titolo. I primi morti ad Atene erano solo questione di ore, negli scontri infuocati fra polizia e manifestanti: e non sono venuti né fra i poliziotti, né fra i manifestanti, che li hanno provocati. Morti "di nessuno", morti di tutti noi.
E’ facile il sarcasmo sull’Europa che trasforma in euro tutto ciò che tocca, e ne muore. Dopotutto, l’Europa si è unita su ciò che aveva di più caro, il portafoglio. Non bastava, però. Sulla loro moneta da due euro i Greci hanno effigiato Zeus che rapisce Europa. Le cose finiscono dove cominciarono. Una china fatale, il fato è a casa sua.
Papandreou ha chiesto giorni fa ai Greci di prepararsi a una nuova Odissea. E - mi racconta Filippomaria Pontani - quasi un’abitudine della Grecia e dei suoi poeti, questa della "seconda Odissea", come la chiamò Kavafis in una delle tante poesie che non pubblicò. Continuare l’Odissea, lo fece Katzanzakis in un gigantesco poema, e Tasos Livaditis aggiunse al poema di Omero un venticinquesimo canto, quasi un presagio del 2001 di Kubrick: l’uomo si porta dietro nello spazio le molliche di pane spartite coi compagni di prigionia.
Continuare l’Odissea, non fermarsi a Itaca. Tante volte, osserva Pontani, il giovane filologo editore di Omero e dei poeti moderni che conosce come pochi la Grecia antica e quella contemporanea, la Grecia moderna è andata al fondo di eventi sul cui orlo noi ci siamo fermati: nel referendum del 1946, anche lì sospetto di trucchi, in cui prevalse la monarchia; nella guerra civile, che infierì dal 1945 al ‘49; nel colpo di Stato dei colonnelli del’67, a metà strada fra quelli tentati da noi. La cosa si ripete oggi, e la campana suona per noi e l’intera Europa.
Che proprio la Germania abbia fatto precipitare le cose, per calcolo o più probabilmente per insipienza, fa esplodere il risentimento dei Greci contro un mondo che già più volte li ha soggiogati. Non è solo la storia di ieri, dell’occupazione durante l’ultima guerra (che andrebbe assieme a quella, spesso taciuta o abbellita dall’idea di "fraternità" mediterranea, degli Italiani nel Dodecanneso dal 1912 al’45).
Lo Stato stesso nacque nel 1833 con un re tedesco e un’ideologia straniera, che riempi Atene di edifici neoclassici e "bonificò" l’Acropoli dal minareto turco e dalla Torre dei Franchi. Nei giorni scorsi sulla
Frankfurter Allgemeine Zeitung c’era un disegno del Partenone con la bandiera turca e il venditore di kebab: una di quelle vignette di cui, blasfemie a parte, si potrebbe fare a meno. Ci furono davvero, bandiera turca e kebab, e dopo che ne furono cacciati un architetto tedesco arrivò a progettare la costruzione della reggia di Ottone sull’Acropoli.
Di fatto l’identità "bizantina", la continuità di una storia, non fu pienamente recuperata prima della fine dell’Ottocento, e almeno da allora le scissioni fra l’ellenico e il bizantino, fra il pagano e il cristiano, fra l’europeo e l’orientale, sono aperte e ininterrotte nell’animo greco.
Ancora poco fa – sembra preistoria - l’Europa fingeva di discutere di radici giudaico-cristiane o greco-romane. I greci sono anche cristiani, e si sono a lungo confrontati con la concorrenza fra Dioniso e Cristo. Quella concorrenza è stata vitale, più a lungo e profondamente che da noi con la romanità. Ma anche nei sensi peggiori: la "cultura elleno-cristiana" fu lo slogan ufficiale dei sette anni della dittatura dei colonnelli, quando la retorica reazionaria voleva far passare comunisti e dissenzienti per "slavi", "altri" -e non importa che gli slavi fossero a loro volta cristiani.
Come sempre, i dilemmi sono più evidenti fuori contesto, nell’emigrazione: e al cinema la commedia ne trae linfa vitale, come nel "Grasso, grosso matrimonio greco" o in "Soul Kitchen". Ma nella meno allegra realtà, gli anni ‘70-’80 del Novecento sono stati uno spartiacque, fra una dignitosa povertà e una ricchezza indigerita. Caduti i colonnelli, è come se il paese si fosse sdoppiato, fra la diaspora degli emigrati e i cambiamenti interni. Chi aveva difeso nelle patrie di adozione la radice mediterranea, la tradizione contadina, la voglia di far festa - gli addebiti mossi oggi in nome del rating non riconosceva più il suo posto nella società mutata. Sembrava loro che l’accesso all’Europa si pagasse con la rinuncia all’identità. Certe dinamiche vanno oltre la politica. Ci fu un momento, negli anni’90, in cui l’economista del Pasok Kostas Simitis si sforzò di mettere i conti sotto controllo: avvenne l’ingresso nell’euro, ma anche lì, si scoprì poi, erano stati fatti dei trucchi, e comunque non cambiò il regime delle dinastie famigliari secolari e della corruzione. L’assurda impennata del debito provocata da ultimo dalla destra conservatrice di Karamanlis non toglie un fondo di responsabilità comune alle diverse maggioranze.
Molti Greci sono offesi e infuriati. Hanno sacrificato un’idea di sé - non una mezza idea, ma l’idea di due metà- per stare in Europa, e si sentono dall’Europa messi in riga con un ultimatum o cacciati. Finché posto e pensione reggono, si può anche tenersi uno status quo disprezzato. Ma quando vengono messi a repentaglio, e con la sensazione di una manovra di odiate potenze occidentali, ogni deriva diventa possibile, anche quella dell’uomo "nuovo" e forte. Corre l’idea di una cospirazione internazionale o almeno di una montatura. Per speculare, per usare la Grecia come anello debole di una catena in fondo alla quale sta il proposito di far fallire l’Europa.
Gli anelli successivi della catena, secondo questa lettura, sono Portogallo, Spagna, Italia: gli oggetti di quella ideologia mediterraneista che identifica queste nazioni con stereotipi fissi, e mira a mettere l’Europa del sud sotto tutela dei popoli "avanzati".
Che cosa producono i greci?- chiedeva l’altra sera, per scherzo o no, Luciana Littizzetto. Già: si può rispondere "Democrazia", "Libertà"? Democrazia è il nome stesso della repubblica greca, Ellinikì Dimocratìa.
L’inno nazionale greco è l’ "Inno alla libertà" di Solomós (1823). E la Grecia, secondo il poeta cipriota Kostas Mondis, "è l’ultimo cespuglio sul burrone  cui la libertà possa aggrapparsi". Sec’è un paese in cui lo spirito della libertà non vuol cedere allo spirito di Maastricht - parametri, economia, parole greche - quello è la Grecia. Eleftherià, libertà, è onnipresente in ogni punto dello schieramento politico: retorica, ma non solo. Se la sono conquistata e riconquistata, la libertà, con fiumi di sangue. Ed è esattamente in questo punto che i greci si sentono feriti.
E’ impressionante - lo fu già nel dicembre 2008 la dimensione e la rapidità della mobilitazione di piazza e la sua capacità di mettere il paese a ferro e fuoco. Fuoco, suona orribile a pronunciarlo oggi. Sempre la volontà di assimilarsi all’ occidente, fino alla scimmiottatura - a Parigi, all’Inghilterra, oggi all’America - si era accompagnata a un risentimento, alla sensazione di essere conculcati. Sessant’anni fa Henry Miller diceva che parlare con una donna greca era più interessante che con mezza dozzina di ragazze uscite da Oxford: un’americanata, ma resta in certi atteggiamenti pubblici in Grecia una schiettezza che noi ignoriamo. Anche gli "anarchici" delle strade di Atene e di Salonicco esigono un’intelligenza pubblica peculiare. L’Europa dovrebbe essere nata e durare soprattutto per questo: per salvare i suoi pezzi, ed esserne salvata. Il trattamento riservato alla Grecia, dice Pontani, è una minaccia all’idea stessa di una comunità europea. I nuovi Greci hanno fatto una quantità di esperienza che a noi sono state risparmiate. Senza, perdiamo molto di più che il Partenone - e il Partenone non è poco.

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