L'osservatrice romana

Arrivano i tecnici, si moltiplicano i banchieri, sopraggiungono i rettori. Primo obbiettivo dei nuovi governanti: eliminare gli ordini professionali, Bene. Difenderò, Con le unghie e - se necessario - anche con i denti il mio, quello dei giornalisti. Quindici anni fa, quando i radicali promossero un referendum per cancellarlo, fui spedita in tv per contrastare Marco Pannella. Una sfida impossibile, o quasi. Non andò malissimo. Da allora a oggi si sono moltiplicate le testate, c'è più giornalismo fuori dalle tipografie che dentro. Migliaia di siti liberamente pubblicano testi e immagini, video e foto - quasi sempre rubacchiati a destra e sinistra - messaggi anonimi, insulti e contumelie generalmente indisturbati e piuttosto impuniti. Evviva! Chi si sente danneggiato può rivolgersi alla polizia postale e, con i suoi tempi, avere giustizia. Le persone perbene pensano che chi si barrica dietro l'articolo 21 della Costituzione per inviare contumelie, nascondendosi con un nickname o un account inventato debba essere considerato con un certo distacco. E' giornalismo? No, qualcosa di diverso. E i vent'anni di Rete ci hanno dimostrato che dai sotterranei dell'ignoto tanta clandestinità non ha pro dotto grandi personalità, né grandi inchieste memorabili. Meglio agire a viso aperto, sempre. Pagando se necessario di persona. Ne sanno qualcosa gli avvocati di Dagospia, che è una testata alla pari di altre.
I liberalizzatori a oltranza dicono: a che serve l'Odg, retaggio arcaico del fascismo, nel mondo digitale? Tutti scrivono, che senso ha la tesserina? La prima ragione che mi viene in mente è banale, ma essenziale: per evitare che i figli degli editori e i pargoli dei banchieri azionisti si mettano intesta di dirigere telegiornali e/o testate quotidiane e periodiche. Vi pare poco? Accidenti. C'è una differenza abissale fra essere diretti da un collega che conosce il mestiere, anziché da un cucciolo di imprenditore che papi ha piazzato a vigilare più sui costi che sui contenuti del prodotto. Non serve fare nomi e cognomi ma è immediata la sensazione di terrore che darebbero certi padroncini (adesso almeno hanno il pudore di consigliare e suggerire ai direttori, i quali non di rado mediano fra loro e le redazioni) messi alla guida dei loro giornali. Oggi che le entrate pubblicitarie calano, ma i contributi pubblici sono sempre sostanziosi, la dialettica fra azienda e giornalisti è vitale, anche perle copie da vendere in edicola e via smartphone. Gli scontri, il confronto duro sulla realtà, le opinioni contrastanti: da questa miscela alchemica nascono gli articoli migliori. Nessuno impedirà mai a un erede legittimo di scrivere, raccontare, intervistare e fare carriera come cronista. Anzi. L'idea però che vengano catapultati dall'alto non appare entusiasmante. Né mi pare corretto che i datori di lavoro prima accedano ai fondi statali e poi sfanghino il dovere di versare i contributi alle nostre casse assicurative sanitarie e previdenziali. Se tutti scrivono, senza distinzioni, senza superare un esame, senza laurea, spesso senza firmare, chi garantirà i più deboli, i giovani capaci che sognano un posto e una paga? La legge attuale è imperfetta, potrebbe essere migliorata, specialmente nei percorsi di accesso alla professione. Ma nel far west che nascerebbe da una liberalizzazione selvaggia, a pagare il prezzo più alto sarebbero proprio gli ultimi arrivati.
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