L'innocenza perduta dello Stato

Un motivo ci deve pur essere se, ad oltre quarant'anni di distanza, ancora ieri l'anniversario della strage di piazza Fontana veniva ricordato dal sindaco di Milano, che la qualificava una sorta di 11 settembre italiano, e dal presidente della regione Lombardia che auspicava la condanna dei colpevoli.
Cosa quest 'ultima purtroppo molto improbabile. Resta da chiedersi perché questo ruolo sovra ordinato rispetto ad altre vicende altrettanto tragiche nell'ultimo mezzo secolo della Repubblica. Si è evocata una «perdita dell'innocenza» a far data da quel 12 dicembre. Ma lo Stato, per molti cittadini, innocente già non lo era da tempo. Almeno da Portella delle Ginestre. E dal tempo del conseguente processo di Viterbo ogni dietrologia aveva già fatto ingresso nello scontro politico. L'incipit di Besozzi a proposito della fine del bandito Giuliano «Di sicuro c'è solo che è morto» è ben precedente al pasoliniano «Io so» pubblicato sul Corriere della Sera diretto da Ottone. Né a perdere l'innocenza fu il movimento di giovani che allora cresceva scontrandosi con la polizia nelle piazze dove vi erano già state vittime, per la verità, da ambo le parti. Eppure la data continua ad avere una funzione di spartiacque fra un'epoca e un'altra. Forse perché simboleggia tragicamente la fine di una stagione politica, quella del dopoguerra, e il complicato e tragico inizio di una stagione di instabilità dalla quale, in fondo, non siamo ancora usciti.
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