La lezione di D'Urso

Dalla Rassegna stampa

È morto a Roma il magistrato Giovanni D'Urso, trent'anni dopo il suo rapimento da parte delle Brigate Rosse. Venne sequestrato il 12 dicembre 1980 perché era addetto alla direzione generale degli affari penitenziari e fu tenuto prigioniero fino al 15 gennaio 1981. In quei mesi l'Italia viveva un tempo plumbeo e sconsolato dal momento che l'offensiva brigatista insanguinava le strade con cadenza quotidiana avendo conquistato, dopo il successo dell'operazione Moro, la supremazia all'interno del «partito armato».

D'Urso fu interrogato dal criminologo Giovanni Senzani, il quale lo aveva conosciuto ai tempi in cui era consulente del ministero di Grazia e Giustizia, un dato che meglio di ogni altro rivela le capacità di infiltrazione delle Br dentro gli apparati dello Stato e le imprevedibili contiguità che potevano scaturirne. Con il sequestro del magistrato, le Br si proponevano di ottenere la chiusura delle carceri speciali, in particolare degli istituti dell'Asinara e di Palmi. La loro azione fu straordinariamente efficace giacché il 28 dicembre 1980, nella sezione del carcere di Trani, scoppiò una rivolta dei detenuti, i quali sequestrarono una ventina di agenti di custodia. La sommossa venne duramente repressa dai Gis, il gruppo di intervento speciale dei carabinieri voluto da Francesco Cossiga, che ebbero in quella circostanza il battesimo di fuoco, ottenendo la liberazione degli ostaggi. La rappresaglia brigatista, però, fu immediata, informata e chirurgica: il 31 dicembre cadde il generale Enrico Galvaligi, ex partigiano che aveva sostituito Carlo Alberto Dalla Chiesa a capo degli istituti di prevenzione e pena e, poche ore prima, aveva diretto da Roma le operazioni a Trani. Il punto più alto della tensione si raggiunse il 29 dicembre, quando le Br chiesero ad alcuni giornali («La Stampa», «la Repubblica», «Il Corriere della Sera», «Il Messaggero», «La Nuova Sardegna», «Il Tempo», «Lotta Continua») di stampare un loro comunicato in cambio della liberazione di D'Urso e degli agenti prigionieri a Trani. Il 10 gennaio 1981 la richiesta venne ripetuta con un ultimatum di 48 ore, al termine del quale l'ostaggio sarebbe stato ucciso.

«La Repubblica» scelse di non piegarsi al ricatto dei brigatisti e il suo direttore, Eugenio Scalfari, visse ore drammatiche: da una parte vi era la minaccia incombente che riguardava la vita di un uomo e le toccanti e comprensibili pressioni dei familiari che chiedevano la pubblicazione del documento, dall'altra il dovere civile e morale di difendere il valore della libertà di stampa e il convincimento che cedere, anche una sola volta, avrebbe significato aprire una spirale di ulteriori estorsioni, senza avere la certezza di ottenere la salvezza dell'ostaggio. I brigatisti avevano scelto con oculatezza i giornali da provocare e il fronte si spaccò secondo i loro auspici: «Lotta continua» pubblicò il documento, seguito da altri quotidiani minori e in tv comparve la figlia di D'Urso che, approfittando di uno spazio messo a disposizione dal Partito radicale, lesse un comunicato in cui il padre era definito «boia».

In una testimonianza Scalfari ha ricordato la drammaticità di quei mo menti perché i brigatisti fecero sapere all'avvocato della famiglia che, per liberare l'ostaggio, sarebbe bastata la pubblicazione del comunicato solo da parte de «la Repubblica». «Avevamo il coltello puntato alla gola»: «stabilirono la posizione in pagina - la prima pagina - il corpo grafico e il titolo. Praticamente volevano il giornale», ma «se avessimo ceduto su quello, la libertà di stampa andava a quel paese». Nonostante questa sofferta decisione, due giorni dopo D'Urso fu liberato.

A distanza di trent'anni da questi fatti è difficile dare conto dell'intensità tragica di quei momenti in cui bisognava decidere anche parte stare e si era responsabili sino in fondo delle proprie scelte. Oggi è facile nascondersi dietro le convenienze di un umanitarismo postumo fondato sulla rimozione di quei fatti e alimentato dal vuoto di memoria civile che caratterizza il nostro scalcinato presente. Dispiace solo che lo facciano pure quanti allora simpatizzavano per l'azione delle Brigate Rosse, ma l'opportunismo è uno stile di vita che si affina col tempo.

Anche per questo motivo siamo persuasi che trent'anni fa questo giornale fece la scelta giusta, pochi mesi dopo il ferimento di un suo giornalista di punta come Guido Passalacqua e nel ricordo di colleghi uccisi come Carlo Casalegno. Si tratta di una pagina tormentata che è giusto ricordare a testa alta, insieme con quelle sere grigie, in cui si rientrava a casa - dubbiosi e impauriti, certo - ma convinti di avere compiuto la propria parte di dovere in difesa della democrazia e della convivenza civile del proprio Paese. Il laccio emostatico in fondo alla borsa, attorcigliato alla penna.

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