Lettere: solo le pene alternative possono dare ai condannati vere opportunità di riscatto

Dalla Rassegna stampa

Si fa sempre più pressante l’idea che il carcere debba divenire pena residuale nel meccanismo della punizione dei reati, vuoi per insostenibile sovrabbondanza della popolazione carceraria, vuoi per insopportabile ammontare dei costi di gestione degli Istituti, vuoi per necessità di una ricerca morale che sappia elevare il processo dell’espiazione verso più nobili soluzioni.
Interessante osservare come, sotto quest’ultimo profilo, la questione si presenti di ben ardua soluzione intellettuale; si tratta, infatti, di riuscire a sottrarre la colpa al più ovvio dei suoi rimedi, quello del castigo, senza incorrere in una contraddizione logica.
Lapalissiano è dire che ad un comportamento vissuto da un aggregato sociale come violazione di una regola, debba conseguire una reazione che, unitamente all’evoluzione verso il personale pentimento, contenga una valida efficacia deterrente; così come - in senso contrario - all’espressione di una virtù dovrebbe corrispondere un premio, che ne favorisca la persistenza.
Dunque, in che modo punire, se non sottraendo all’uomo colpevole la gioia del vivere, in proporzione umanamente accettabile? A quali meccanismi affidare il principio del recupero, anche in forma morale?
Si è letto che, nel carcere romano di Rebibbia, alla presentazione del film “Cesare deve morire” - Orso d’oro al Festival di Berlino - l’emozione più intensa sia scaturita dalle parole di uno dei due formidabili fratelli registi, Paolo Taviani, così testualmente riportate: “è una ingiustizia che questi esseri umani siano allontanati dalla società, dalla famiglia, dalle loro donne”.
Abbracciando questa ipotesi, se si trattasse veramente di un’ingiustizia, dovremmo pensare che sarebbe corretto mantenere chi è stato ritenuto colpevole, comunque presente nella società, nella famiglia, vicino alla propria donna o uomo. Nel pieno, dunque, delle sperimentabili possibilità di appagamento che l’esistenza offre, seppur spesso difettosamente.
In certo qual modo, garantendo le stesse opportunità dei non colpevoli.
Difficile non provare un senso di spaesamento, particolarmente di fronte all’efferatezza di taluni crimini. Infatti, se è innegabile che il percorso di redenzione richieda opportunità di lavoro, di confronto, di colloquio anche affettivo/sessuale e di perdono, è altrettanto indiscutibile che esso non possa mancare, però, la sua natura di condanna.
Molto si discute delle cosiddette pene alternative, con la consueta difficoltà di comprendere come quanto è alternativo a qualcosa, possa conservare la stessa natura di ciò da cui deve, per contro, differenziarsi. Senza giochi di parole, cioè, in che maniera la pena possa rimanere tale se diversa da sé stessa.
Il tema rappresenta una delle tante diffuse antinomie dei nostri tempi: sobrietà nella crescita, sviluppo nel risparmio, generosità nell’affermazione di sé, gioia nella sofferenza.
La conciliazione di queste antitesi sembra impervio ostacolo e certamente costituisce la complessa, moderna fatica di trasformare il linguaggio in modi d’essere che sappiano vivere nella nostra operatività quotidiana.
Eppure, proprio in quello stretto spazio di confine tra ossimori, si trova, mai come oggi, il corridoio in cui tentare di esplorare nuove idee, di immaginare nuove soluzioni, di concepire nuovi pensieri. Perfino di inventare nuove pene.
In quel piccolo spazio neutro, tra le trincee lungo le quali si fronteggiano le tante contraddizioni del nostro vivere, sta la vera sfida che il decreto annunciato dal Ministro Annamaria Cancellieri sembrerebbe voler accogliere.
Senza entrare nei dettagli, non essendo questa la sede opportuna, sul contenuto del pacchetto dei provvedimenti tuttora in corso d’opera, va evidenziato come esso paia decisamente rivolto a snellire il cammino espiativo e a limitare la rigida permanenza del detenuto nell’istituzione carceraria. Dal maggior sconto di pena per la buona condotta, alla più ampia facoltà di sua riduzione da parte della magistratura di sorveglianza, alla rivisitazione di una più elastica idea di detenzione domiciliare, svincolata dall’infamante marchio della cd abitualità nella delinquenza, ad altri benefici penitenziari.
Particolarmente degna di nota sembra essere, per il suo richiamo al principio costituzionale della rieducazione del condannato, l’auspicata estensione dell’assegnazione di detenuti (che ne abbiano i requisiti) a lavori e progetti di pubblica utilità, sotto la supervisione dell’Autorità giudiziaria. E molto altro ancora.
Temi delicati, complessi ed oggi inevitabilmente gravati dalla prudenza che sempre contraddistingue la novità, ma, ormai, in pieno percorso di studio ed attuazione. Forse una nuova frontiera, con limiti concettuali e confini pragmatici tutti da esplorare, ma certamente di grande interesse e portata socio/politica.

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