Lettere: il caso di Stefano Cucchi e le garanzie al cittadino

Dalla Rassegna stampa

Nei giorni scorsi la Corte d’Assise di Roma ha condannato per omicidio colposo i sei medici implicati nel caso di Stefano Cucchi, il geometra arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo nel Reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini dove gli imputati lavoravano. Sono stati invece assolti gli infermieri dello stesso ospedale e gli agenti penitenziari che erano di turno durante la sua custodia.
Ora risulta difficile non definire questa sentenza una soluzione perlomeno parziale. Perché se i giudici romani hanno ragione dovremmo intendere che nella catena alimentare che ha divorato il corpo del povero Stefano Cucchi si ritiene colpevole solo chi, a torto o a ragione, non è stato in grado di salvargli la vita e non chi l’avrebbe messo nelle condizioni di rischiare la propria vita. Sarebbe come dire che si debba condannare, giustamente, un cattivo medico che per incuria non salvi la vittima di un incidente stradale, ma si debba assolvere l’investitore.
Procedo per metafore naturalmente, ma le metafore servono, perché quando la logica viene meno, allora si deve ricorrere all’immaginazione. Non c’è oltraggio peggiore che si possa fare ad un cittadino di quello di non garantire la sua incolumità quando è affidato alla giustizia. E non c’è immaginazione che conti quando si tende a far passare per normalità un torto madornale.
Le guardie carcerarie assolte tirano un sospiro di sollievo, questa sentenza gli ha dato ragione, ha cioè asserito che un uomo di trentun anni, alto e magrissimo, entrato in carcere in buona salute, arriva alla prima udienza in tribunale con ecchimosi agli occhi e quasi incapace di camminare. Ha cioè asserito che un uomo può entrare in un territorio istituzionale e non avere garanzie di incolumità, da chiunque o comunque gli siano provenute le lesioni. È stato pestato da qualcuno? Occorrerà capire da chi.
O siamo di fronte ad un altro caso di autolesionismo come nella tremenda vicenda Aldrovandi? Il Reparto protetto di un carcere è un territorio istituzionalmente sacrale, un posto cioè dove lo Stato certifica la sua altezza morale. Corre il sospetto che il problema di Stefano Cucchi sia stato il pregiudizio che si esercita su quei cittadini ritenuti di serie B, colpevoli di avere avuto pregressi con la giustizia.
Questa vicenda ci dice che le sentenze incomprensibili, seppure indiscutibili, come questa non risolvono il problema fondamentale di spiegarci in che modo possiamo fidarci di un sistema in cui conta esclusivamente la colpa e non l’espiazione. Senza considerare il fatto che il sospetto che si sia voluto glissare sulle responsabilità degli agenti di Polizia Penitenziaria non fa affatto bene a quella gloriosa e degnissima istituzione.
Questa sentenza allibisce per la sua qualità di merletto, di ricamo, di capacità di glissare. Ma dà la misura di quanto si possa criminalizzare un uomo per essere stato “tossicodipendente” e per sembrare “anoressico, larva, zombie”.
C’è una cosa tuttavia che questa sentenza non dice, non dice che un pestaggio nei confronti di Stefano Cucchi non c’è stato. Afferma che le indagini non hanno prodotto prove sufficienti su un fatto incontrovertibile e cioè che un imputato ex tossicodipendente, di 40 chili, in custodia cautelare è stato malmenato fino a causargli la necessità di un ricovero dove, questo per i giudici sarebbe certo, medici inadeguati hanno lasciato che morisse o non hanno fatto abbastanza perché sopravvivesse.
La morte stessa di Stefano Cucchi, sarebbe la prova definitiva a carico dei medici che non l’hanno salvato, ma le sue lesioni non sarebbero sufficienti a stabilire che qualcosa d’ingiustificabile e inaccettabile è accaduto nella zona morta della carcerazione cautelare. Nel momento cioè in cui l’incolumità di Stefano Cucchi, qualunque fosse la sua colpa, doveva essere totalmente salvaguardata.

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