Lettera – Se fossimo noi le vittime?

Caro Colombo, le scrivo seduto in auto nei pressi delle officine militari Iveco. Qui solitamente approfitto per leggere qualche pagina del "Fatto" durante la pausa pranzo. Già, altre volte rimanevo impressionato dal rombo dei blindati e mezzi corazzati che vengono scortati da un reparto a un altro. Oggi ho provato a immaginare che cosa significhi vedere questi mezzi irrompere nelle strade del Paese in cui abito perché stanno attaccando. Oggi, che sono padre, vedo la mia integrità minacciata da questa voglia di guerra. Non riesco a liberarmi dal pensiero: se fossimo noi le vittime?
Christian Maria
Ho parlato dell'inestricabile (apparentemente inestricabile) nodo "guerra-pace" appena due giorni fa, in questa pagina, ma mi lascio spingere da questa lettera di sincera tensione, a ritornare sull'argomento, che del resto non finisce mai; non solo per la voglia di guerra" di cui Christian parla, ma anche per il susseguirsi e il moltiplicarsi di eventi a cui anche le persone in buona fede, anche governanti seri e preoccupati come Obama, sembrano guardare smarriti, e non sanno come rispondere. Non c'è dubbio che ci si avvia in un terreno senza tracce (o con poche tracce, e non tutte chiarissime), quando si affrontano nello stesso tempo due impegni apparentemente incompatibili come "voglio salvare chi è vittima della violenza" e "voglio eliminare la fonte di violenza, con un minimo di violenza". Sappiamo già che mentono coloro che ci assicurano che la loro violenza salvatrice e benefica sarà minima, quasi niente, e che sono comunque da escludere vittime civili, danno agli innocenti. Una volta messa in moto, la macchina della guerra ha due caratteristiche non evitabili: uccide all'ingrosso e colpisce con una forza che non ha niente a che fare con le "buone" ragioni dell'uso di quella macchina. Ma come non aver notato, nei tanti dibattiti di questi giorni, che la ragione morale dei non interventisti si serve di argomenti grandi e veri che però restano in sospeso sul vuoto dell'ultima domanda: ma se la diplomazia non è possibile e la gente muore, che cosa faccio? La lettera di oggi suggerisce un modello pedagogico di comportamento mentale e morale. Se fossi la vittima? Si possono fare mille distinzioni. Ad esempio, per la Libia: la vittima di Gheddafi o la gente di Gheddafi come vittima? La domanda non accetta distinzioni e ci aiuta a capire il senso e le ragioni di percorsi radicalmente diversi. Infatti, tutto ciò che stiamo vivendo è frutto e conseguenza di qualcosa che viene prima (come ripete tutto il tempo e sempre ignorato Marco Pannella): cattivi governi, diplomazie sorde e la cecità conveniente di chi si occupa solo di interessi della sua parte e di fatti e risultati da mostrare come scalpi di successo sul momento, ma non vuole saperne di fare prima e in tempo ciò che dopo apparirà impossibile senza estrema violenza. Ecco allora che la violenza della guerra ci appare per quello che è: un cancellare le tracce degli errori e omissioni non solo e non tanto del "colpevole" ma, soprattutto, di chi poteva molto prima - evitare che si arrivasse al punto del massacro "inevitabile". In questo scenario si vede bene la grettezza, l'egoismo, la cecità selettiva con la quale si svolgono e si tessono ogni giorno le relazioni internazionali. Anche adesso, in questo istante, siamo nel prima di un dopo che sarà peggiore a causa del comportamento più o meno volutamente sbagliato di oggi. Pensate per un istante ai volti dei giovani e giovanissimi tunisini che stanno sbarcando a Lampedusa: festosi, grati, con l'entusiasmo dei ragazzi che sono, al momento dello sbarco. Amari, delusi e consci di essere caduti in una trappola squallida e maleodorante che credevano fosse "la libertà e il futuro" (cito dalle interviste), dopo uno o due giorni, talvolta dopo poche ore. Mentre scendono dalle barche in cui si sono salvati per miracolo, vengono degradati da esseri umani soccorsi in mare a "clandestini" cioè, essi stessi, corpi di reato implicitamente colpevoli di essere giunti vivi in Italia.
Volete dire che non comincerà a crescere in molti di loro uno spirito di inimicizia e di vendetta verso di noi, verso l'Italia, proprio adesso mentre noi potremmo agire con loro in modo radicalmente diverso e preparare insieme, fra la loro sponda del mare e la nostra, uno spazio (si dice “futuro” di pace? Non solo non lo stiamo facendo, ma ci chiedono ogni giorno in televisione di credere che molti terroristi si nascondono tra quei ragazzi scampati al mare che fanno i primi passi a fatica, e a guardarli non con fraterna solidarietà ma come gente malvagia pronta a colpire. Qualcuno, incosciente e incapace di immaginare il futuro, ci sta spingendo già adesso a essere le prossime vittime.
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