Lettera - Oggi “Critica liberale” fa 200 ma per la sinistra non esiste

Cara Europa, leggo nella vostra agenda di ieri le quattro righe che segnalano per oggi l’incontro in casa Rangoni Machiavelli degli scrittori e giornalisti che da oltre 40 anni, a partire dal ’68, stampano a proprie spese e mandano in libreria il mensile (a volte bimestrale) diretto da Enzo Marzo, Critica liberale: unica grande voce del liberalismo italiano che non si sia spenta dopo Risorgimento liberale, nato nella clandestinità della guerra, e Il Mondo, durato vent’anni con la guida magica di Mario Pannunzio. (A proposito, posso fare i miei auguri a Pubblico, il nuovo quotidiano uscito ieri?) In quarant’anni, dicevo, Critica ha sempre affermato una posizione di sinistra liberale, l’unica fra le tante e rissose sinistre di questo paese ad essere sgradita a tutte le altre. Perché?
Alda Cingolani, Firenze
Cara signora, scriveva Keynes, citatissimo solo per le ricette economiche: «Le nostre personali simpatie vanno al Partito liberale, che ha il suo centro decisamente a sinistra. Ma ha menti più coraggiose libere e disinteressate di quelle del Partito laburista, e immuni dai suoi dogmi fuori moda». Vogliamo dire che Keynes abbia visto prima e con la chiarezza che a noi sarebbe mancata, la ragione del “non gradimento” del liberalismo tra le sinistre? Critica è nata in uno scantinato, con un ciclostile, scrivendo gli indirizzi a mano, in pieno Sessantotto, l’anno della rottamazione vera (società e scuola di classe, stato borghese, chiesa medievale, etica razzista e sessista, partiti formalmente nuovi e sostanzialmente leninisti, corporazioni feudali). Potrei dire, siamo nati come “sessantottini” ribelli alle deviazioni neototalitarie del Sessantotto, e perciò consapevolmente destinati alla solitudine «nella nostra stessa generazione»: come ricorda Enzo Marzo nel saggio con cui si apre il fascicolo 200.
Stranieri in patria, perché nessuno – comunisti, cattolici, fascisti, massimalisti – accettava i due fondamenti di Critica: idiosincrasia verso il potere e conflittualismo. Si preferiva al conflittualismo il conflitto, il potere proprio (l’immaginazione) ai poteri esistenti, senza riuscire a immaginare il vero “non potere”, che è lo stato di diritto: approdo di alcuni secoli di costituzionalismo e di rivoluzioni. Mentre l’approdo del sessantottismo fu per troppi il compromesso storico e per altri il terrorismo. Sarebbe bastato superare Chiasso – per dirla con Arbasino – e voltarsi indietro per vedere l’Italietta dei cattocomunisti di Lotta continua, dei fascistelli bombaroli, del rosso chic ubriaco dei crimini di Mao, del compromesso storico, dello stato un po’ golpista un po’ clericale, della Costituzione più subìta che realizzata; e guardare avanti all’Europa e alla sua civiltà liberale che stava scrivendo la parola fine sul secolo ideologico. La vera rottamazione (laicismo, diritti civili, federalismo europeo, stato di diritto) sarebbe cominciata col divorzio, per iniziativa di altri inassimilabili, che tuttavia avevano sponde politiche (Pannella, Fortuna, Baslini).
Anche per questo, l’incontro di Critica si svolge stasera da Beatrice Rangoni Machiavelli, per il suo apporto al team di cervelli che promosse il divorzio (e tutto quel che ne seguì: legalizzazione dell’aborto, obbiezione di coscienza, lotte tuttora in corso per nuovi diritti, che le gerarchie clericali di tutte le chiese, non i loro popoli, chiamano “etici”, e i liberali chiamano “civili”).
Oggi come ieri è qui, non solo all’anagrafe, la guerra fra vecchio e nuovo. La guerra anche fra chi si chiama liberale in nome di Keynes, Einaudi, Gobetti, Bobbio (e Croce, naturalmente) e della filosofia delle regole e ancora regole e dell’economia di mercato; e chi chiama “liberale” la propria scelta per il «capitalismo accattone», dice Marzo, che rifiuta le regole sul conflitto d’interesse, la concorrenza, gli assetti societari, l’evasione e i paradisi fiscali, l’espatrio dei capitali,l’imposta di successione, il falso in bilancio, i monopoli, il ripiano pubblico dei passivi privati, l’ambiente, il nuovo welfare. Che c’entrano i Ligresti, i Riva, i Tanzi col liberalismo? E con lo stesso “spirito imprenditoriale”? Per fortuna, liberisti e liberaloidi, col loro trasloco a destra, hanno disinquinato il liberalismo italiano dalla macchia nera che da tempo lo ha reso impopolare. Ora bisognerebbe che fossero gli altri, i cosiddetti riformisti, se non sono solo «trotskysti wojtyliani» rivestiti pei Tea Party, ad aprire ai liberali le porte del pluralismo. Di cui s’era parlato all’inizio, sotto alberi di ulivo.
© 2012 Europa. Tutti i diritti riservati
SU