Lettera - Eluana, martire di un amore frainteso

Caro direttore, non è nemmeno lontanamente pensabile che quella di Beppino Englaro non sia stata, nelle sue intenzioni, una forma di amore. Così come non è nemmeno lontanamente pensabile che non fosse amore ciò che ha spinto le suore Misericordine di Lecco ad occuparsi di Eluana per tutti quegli anni. Poi, come spesso accade quando si interpreta male ciò che sta nel cuore altrui, non ci si è capiti, o non ci siamo voluti capire. E siamo ancora lì, a quel punto in cui eravamo due anni fa, convinti ciascuno che la propria forma di amore sia quella giusta e doverosa. Ma come si fa a mettere in relazione e a conciliare due visioni così lontane e opposte dello stesso dramma? Potrei lanciarmi in un tentativo di risposta, ma l’esperienza ci ha mostrato che anche con la migliore delle intenzioni non c’è modo di conciliarsi se non ci si mette almeno in partenza sul medesimo piano. Qualcuno dice che i cattolici parlano senza avere un cervello, ripetendo abulicamente strane formule instillate dal maligno «potere vaticano».
Risponderei che mai come in questa vicenda ho visto gente insospettabile e devota farsi mille domande e aprire un sacco di obiezioni. Con ciò, nessun timore a difendere un’idea che rivendico mia al di là che la Chiesa l’abbia ratificata o meno. La vita non è disponibile, per togliercela, esattamente quanto non abbiamo il diritto di darcela, momento per momento. Quella di non essere padroni della nostra vita è una esperienza reale di tutti, che trova una precisa dimostrazione nel fatto che nulla di ciò che fa funzionare il nostro corpo dipende esplicitamente dalla nostra volontà. Io non vivo perché voglio vivere, ma momento per momento la vita in un modo ineffabile mi viene donata, e il mio compito conseguente è di accettarla per quella che è, e fare di tutto per custodirla, preservarla, amarla...
Non possiamo trattarla come fosse un’auto che possediamo e di cui abbiamo anche le chiavi, ingigantendo a dismisura una specie di delirio di onnipotenza derivante dall’enorme sviluppo recente delle bio-scienze e della fecondità artificiale. Ecco perché alla fine ci dobbiamo almeno mettere a riflettere tutti insieme su ciò, e non solo per trovare una soluzione legislativa al problema della gestione delle vite terminali, ma proprio per avanzare culturalmente nel campo della ragionevolezza, ovvero ciò che rende una qualsiasi cosa immediatamente compatibile con la nostra ragione di uomini. Difficile dire, constatando anche gli ultimi drammatici giorni di Eluana, che vi sia stata gioia nel fare ciò che le è stato fatto. Anzi, ci fu proprio buio, sofferenza e morte. Ci è stato ripetuto alla nausea che si trattava del bene assoluto di dare corso a una espressa volontà. Ma colui che ti ama e ti vede sul ciglio di un burrone non viene - mai - a darti una spinta per aiutarti in quella che non a caso si chiama "insana idea". Dunque possiamo anche chiamarlo amore, ma proprio perché non ha i frutti dell’amore, si tratta perlomeno di un abuso, o di un qui pro quo. Ecco sì, questo è ciò che scriverò su di una mia piccola lapide virtuale: Eluana Englaro (Lecco, 1970 - Udine, 2009). Martire di un amore frainteso.
Roberto Paludetto, Milano
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