L'errore (grave) da correggere

«Caro Tonino, non ti illudere, le quattro o cinque misure che hanno rovinato l'Italia le abbiamo già prese, non ci possiamo fare più niente, siamo condannati...» La frase è di Ugo La Malfa e mi è capitata di citarla già altre volte. Era un suo modo per tirar corto nelle conversazioni private con Antonio Maccanico sul futuro dell'Italia.
Al primo punto delle «quattro o cinque misure», riferisce l'amico Tonino, c'erano sempre le Regioni: «Vedrai, vedrai, saranno un moltiplicatore di clientele e di spesa pubblica improduttiva». Ugo La Malfa, come spesso gli capitava, aveva visto lungo, ma in questo caso le sue previsioni nefaste peccano per difetto: non solo sono aumentate le spese pubbliche improduttive e si è trasferito sul territorio, elevandolo (spesso) al cubo, il vizio di caricare sul bilancio pubblico ogni genere di clientela, ma si è riusciti nel miracolo assoluto di aumentare in un decennio la pressione fiscale "territoriale" sui cittadini del 50% senza diminuire (anzi è aumentata fortemente) quella centrale.
Pochi numeri sono sufficienti per percepire la gravità del fenomeno. Ce li forniscono Eugenio Bruno e Gianni Trovati, nell'inchiesta condotta dal Sole 24 Ore che pubblichiamo per esteso alle pagine 2 e 3, e sono inequivoci: dalla nascita delle Regioni a oggi la pressione fiscale è balzata dal 27% al 44,7% e, in particolare, dal 2001 prima del debutto effettivo della riforma del titolo V al 2012 le tasse delle Regioni sono cresciute del 50% e quelle percepite dallo Stato, a livello centrale, del 31,6%. A fronte di tutto ciò, i costi della politica regionale, negli ultimi dieci anni, sono passati da 452,6 a 896,7 milioni l'anno. Distinguere caso per caso è sempre giusto e necessario, ma l'ordine di grandezza complessiva del fenomeno riassume algebricamente la dimensione (allarmante) della nuova questione statuale italiana che non si limita, evidentemente, ai costi diretti (abnormi) della politica.
Si era detto che il decentramento prima e il federalismo poi avrebbero accorciato la filiera tra cosa pubblica e cittadino e avrebbero reso più facile il controllo sulla gestione delle risorse. Non è stato così. Una volta aperta la nuova diga, la massa di acqua della spesa pubblica concentrata tutta al centro si è riversata in periferia travolgendo ogni argine di controllo e moltiplicando, parallelamente, il tasso di angheria burocratica sui cittadini e su chi vuole aprire un'impresa e i poteri di veto sui grandi investimenti infrastrutturali. Far passare la spesa cattiva (tanta) per clientele e poltrone insieme a quella buona (poca) per i servizi a cittadini e imprese è stato un gioco da ragazzi. Viene da sorridere a pensare che sia stato un "Batman" di Anagni a doverlo smascherare. Non è più tempo di indugi e denunce folcloristiche (alzano grandi polveroni e tutto resta come prima) ma è tempo di azione. Il Paese, stremato dalla crisi, esige moralità ed efficienza che passano attraverso la via (obbligata) di un decentramento controllato. Fatti (subito) non parole.
P.S. Domenica primo appuntamento con Rating 24 sul grado di attuazione dei provvedimenti di riforma del governo Monti. Moralità ed efficienza camminano sulle ruote della macchina statale molto più di quello che si pensi. Siamo certi che verificare e rendere conto sia un servizio ai lettori e a chi governa.
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