Legge elettorale scritta con i piedi

Di rado capita di assistere a un pasticcio come quello combinato dal decreto-legge elettorale. Fino a due giorni addietro il mondo politico riteneva risolto il problema. Da un lato stavano le pressioni di movimenti che dovrebbero raccogliere le sottoscrizioni, a causa della mancanza dei requisiti ristretti previsti dal porcellum: grillini, radicali, finiani, la Destra_ Dall'altro c'era il capo dello Stato, sollecitante pubblicamente una revisione delle norme.
A oggettivo favore di aggiustamenti stava la considerazione che, fino al passaggio del Pdl all'astensione, la legge elettorale avrebbe potuto subire svariati mutamenti. Era poi imminente la pubblicazione dei dati del censimento in Gazzetta Ufficiale, con conseguenti modifiche del numero degli eligendi nelle circoscrizioni. Di decreti-legge elettorali in corso d'opera la storia parlamentare trabocca, anche perché la Corte costituzionale ha messo come unico limite il divieto di modificare la trasformazione di voti in seggi. Tali decreti avevano, però, un carattere comune: erano preventivamente concordati fra i partiti. In tal modo le Camere li convertivano senza problemi: al massimo, con qualche limatura per accontentare qualche insoddisfatto. Stavolta i partiti hanno avuto contezza dei contenuti (discutibili, per non dire altro) a giochi fatti, appena prima della pubblicazione. Non solo: una norma (quella che fa riferimento a «componenti politiche esistenti all'interno dei gruppi», riconosciute solo nel misto e solo a Montecitorio) era scritta coi piedi. Inutile stupirsi se disposizioni che scontentavano molti fra coloro che premevano, abbiano sortito un mezzo disastro, anche per i tentativi in extremis di favorire nuovi partiti.
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