La lealtà senza strategia

Dalla Rassegna stampa

Tra i governi occidentali l´italiano è il più sbilanciato verso Mosca, il più comprensivo verso Gheddafi, il più solidale con i dinosauri bielorussi, e nella sua componente leghista, il più ostile ad ogni genere di mussulmano.
Ma contraddicendo quelle vocazioni e proiezioni geopolitiche piuttosto eterodosse, se non già post-occidentali, in questi giorni Roma è stata anche la capitale più sollecita nell´offrire alla missione Nato in Afghanistan i soldati chiesti da Obama. I mille che partiranno per l´Afghanistan sono il doppio dei militari promessi da Londra, che pure sulla «special relationship» con Washington fonda gran parte della propria politica estera. E la rapidità con cui sono stati messi in campo spicca rispetto ai tentennamenti di Berlino e alla momentanea indisponibilità di Parigi, governi certo non sospettabili di inimicizia verso gli Stati Uniti. Chi fermamente crede che nella guerra in Afghanistan si giochi moltissimo, in ogni caso troppo perché l´Alleanza atlantica possa uscirne sconfitta, non può che rallegrarsi. Ma il motivo di soddisfazione si esaurisce qui. E non cancella il fatto che la politica estera di Berlusconi sembra una sommatoria di scelte episodiche dettate dalla convenienza, speriamo nazionale e non privata, piuttosto che l´attuazione di una strategia coerente. Dunque prendiamo atto che il business con la Libia marcia come mai prima d´ora, che l´alleanza strategica tra Eni e la russa Gazprom promette alla compagnia italiana una primazia in Europa certo importante, che saremo la prima economia sviluppata ad entrare nel mercato bielorusso. Ma chiediamoci anche se la nostra posizione nelle gerarchie occidentali non ne risenta al punto da obbligarci ad accollarci in Afghanistan oneri e rischi maggiori di chi, per contare o essere giudicato affidabile, non ha bisogno di fornire altrettante attestazioni di lealtà. Beninteso, gli affari non sono affatto un aspetto secondario, soprattutto quando interessano materie prime strategiche come gli idrocarburi.
Ma la politica estera è, appunto, una politica, e cioè qualcosa di più largo e di più complesso di un bilancio societario. Il governo sembra invece seguire una linea diciamo «minimalista» non solo per la formazione di alcuni tra i suoi protagonisti, e sia detto senza offesa, per i loro evidenti limiti intellettuali, ma anche per un´obiettiva difficoltà a trovare la sintesi di culture politiche divergenti.
Per esempio, non vi è nell´Europa maggiore un partito di governo avverso allo spirito europeo e occidentale quanto la Lega, certamente a suo agio sotto i marmorei cieli balcanici o tra quei villini della Carinzia pullulanti di nani in gesso, ma del tutto incongrua a Londra, Parigi o Berlino, capitali dove i Bossi e i Castelli non hanno accesso ai processi decisionali in cui entrano in gioco gli interessi forti della nazione e una storia dotata di senso. La clownerie leghista, questo è vero, non può creare un reale intralcio alla politica estera (anche le ambasciate ormai sono consapevoli che, per dirne una, quell´invocare il ritiro del contingente italiano dall´Afghanistan non va preso sul serio). Ma certamente contribuisce alla timidezza di un governo che sembra procedere per invenzioni, per aggiustamenti, senza una rotta definita.
Tanto da far sospettare, in questa occasione, che Roma sia stata così sollecita nell´esaudire la richiesta americana perché intendeva recuperare la benevolenza di un´amministrazione non entusiasta di Berlusconi. Così abbiamo promesso ad Obama di mandare rinforzi in Afghanistan ma ci siamo dimenticati di chiedere di partecipare all´elaborazione della nuova strategia. Metteremo i soldati: ma saranno altri a decidere.

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