L'appello di Eni a Gazprom per l'italiano di Greenpeace

Dopo la decisione presa martedì dal tribunale russo di Murmansk, che ha respinto la richiesta di scarcerazione su cauzione per l’attivista napoletano di Greenpeace Cristian D’Alessandro e per gli altri militanti ambientalisti arrestati il 19 settembre scorso per aver provato ad assalire una piattaforma petrolifera nel mar di Barents, dall’Italia si tenta la strada della diplomazia del petrolio. Si muove l’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni e si rivolge direttamente ad Alexey Miller, numero uno di Gazprom, la compagnia impegnata sulla piattaforma presa di mira dagli ambientalisti. E lo invita a un gesto forte, che non potrebbe passare inosservato nemmeno in un Paese come la Russia: dare una mano a chi voleva attaccarlo, perché questo, scrive Scaroni, «aiuterebbe l’industria dell’energia a stabilire un dialogo trasparente e costruttivo con tutte le entità interessate».
Di fronte alla linea dura adottata dalle autorità russe (proprio l’altro giorno il ministro degli Esteri Sergej Lavrov aveva ammonito l’Europa a «non interferire negli affari della giustizia»), l’ad di Eni sceglie le parole con cautela: «Capisco che Gazprom non ha alcun ruolo nell’indagine - scrive a Miller - Tuttavia, vista la tua grande reputazione, un appello alla clemenza da parte tua potrebbe essere di aiuto a coloro che sono detenuti». E che in carcere rischiano di restarci a lungo. Per D’Alessandro il tribunale ha prorogato la reclusione fino al 24 novembre, ma se alla fine si arriverà al processo, lui e gli altri attivisti rischiano una condanna fino a 15 anni di carcere perché sono accusati di un reato gravissimo: pirateria organizzata di gruppo.
Cristian D’Alessandro, 31 anni, si trovava a bordo dell’Arctic Sunrise, il rompighiaccio utilizzato per il tentativo di arrembaggio alla piattaforma Gazprom, perché dopo alcuni anni passati a fare volontariato ambientalista a Napoli, proprio all’inizio del 2013 era entrato a far parte degli equipaggi internazionali di Greenpeace. Aveva già partecipato ad altre operazioni, ma quella del settembre scorso era certamente la più importante che gli fosse capitata. Greenpeace aveva scelto quella piattaforma in cui sono in corso delle trivellazioni per protestare contro i rischi che questo genere di operazioni provocano all’Artico. Cristian era consapevole che un assalto a una piattaforma nel mar di Barents comportava dei rischi, ma non aveva messo in conto di finire in carcere con la prospettiva di restarci a lungo. Lo ha detto lui stesso al console italiano a San Pietroburgo Luigi Estero, che lo ha incontrato, e ha riferito di averlo trovato comunque «ragionevolmente tranquillo». Lui, dice il padre Aristide, «è un ragazzo forte». A casa lo hanno sentito una sola volta, in questi giorni, una settimana fa. «Ci ha detto che aveva chiesto di chiamarci già altre volte - racconta il padre - ma non aveva potuto. Psicologicamente sta reagendo bene, ma quanto potrà durare?».
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