L'antidoto dei play-off ai traditori del pallone

Dalla Rassegna stampa

Dunque sarebbe andata così. Gli ultrà del Bari si accorgono che i giocatori, praticamente retrocessi, vendono le partite. Ma anziché redarguirli o denunciarli si mettono in affari con loro. Scommettono contro la propria squadra del cuore.

E per farlo non scelgono una partita qualsiasi. Scelgono il derby col Lecce.

Provo a immaginarmi mentre scommetto contro il Toro in un derby e al solo pensiero vengo sopraffatto da brividi di sgomento per un simile atto contro natura. E questi sarebbero dei tifosi? I tifosi del Bari, quelli veri, entrano allo stadio ignari. Par di vederli prendere posto sui gradini con i figli appesi a bandieroni più grandi di loro. «Papà, oggi vinciamo, vero?». E in quella domanda risuona ancora una fiducia totale nell’andamento lineare del mondo. Comincia la partita e le cose per il Bari si mettono male: il Lecce segna un gol. Ma si può sempre rimontare, niente è più bello di un derby vinto in rimonta. Poi il leccese Jeda spara un cross innocuo in mezzo all’area barese e il difensore Andrea Masiello si avventa sul pallone a gambe sguainate. Col primo piede lo manca, ma lo colpisce col secondo. E come lo spigolo di un flipper lo sospinge in fondo alla rete.

Un autogol talmente sguaiato da sembrare sincero persino ai telecronisti più sgamati. Masiello perfeziona l’inganno con gesti da attore consumato: prima si butta all’indietro e poi si siede per terra, la testa reclinata sulle ginocchia. È una réclame della disperazione. Penso al bambino col bandierone sugli spalti, alle sue lacrime irrefrenabili, perché tutti i maschi da piccoli hanno pianto una volta alla fine di un derby perduto e per molti di loro - di noi - è stato il primo appuntamento con la durezza della vita e dei suoi verdetti spesso incomprensibili.

In questo caso il verdetto è truccato. Il difensore infame ha preso duecentotrentamila euro per «cristallizzare» il risultato, come egli stesso ammette con linguaggio assurdamente forbito nella confessione controfirmata davanti agli inquirenti. Duecentotrentamila euro per far piangere tanti bambini e far guadagnare tanti soldi agli ultrà e ai compagni di squadra coinvolti nella truffa. E pare che non finisca qui. Grazie alla vittoria «cristallizzata» da Masiello, il Lecce infatti è salvo con una giornata di anticipo e alcuni suoi giocatori possono tranquillamente vendersi l’ultima di campionato contro la Lazio. Questa, almeno, la convinzione della magistratura. Sta di fatto che il giorno dopo l’allenatore del Lecce straccia il contratto e se ne va senza dare spiegazioni. Le scommesse nel calcio sono come il doping nel ciclismo: molti le praticano, tutti lo sanno, nessuno ne parla. Lo chiamano «quieto vivere», ma il suo nome vero è «omertà».

A questo punto dovrebbe partire il pistolotto moralista contro il pallone, specchio e metafora di una società avida e sregolata: Masiello come i broker di Wall Street. Il quadro è disperante, perché a vario titolo coinvolge tutti gli attori (è il caso di dirlo): giocatori, allenatori, dirigenti e ultrà. Un sistema di professionisti cinici che campa sulle spalle di alcuni milioni di creduloni che continuano a pagare il biglietto o l’abbonamento televisivo per nutrirsi di emozioni sempre più edulcorate. Ma in attesa dell’illuminazione collettiva che cambierà la natura umana - o semplicemente dell’esplosione di questo giocattolo gonfiato da troppi soldi, partite, interessi - mi permetto di proporre una soluzione che ai ladri toglierebbe, se non la voglia, almeno l’occasione per rubare. I playoff.

Un campionato a sedici squadre che finisca a Pasqua e poi lasci il posto a due tornei a eliminazione diretta: fra le prime otto per lo scudetto e fra le ultime otto per la salvezza. Così tutte le sfide di primavera diventerebbero decisive e sarebbe molto difficile architettare giochi sporchi. La condizione ideale per la truffa è che una delle due squadre, come il Bari di Masiello in quel derby, non abbia più stimoli sportivi. Solo i playoff garantiscono la par condicio. La garantiscono prima, quando le partite contano poco. E dopo, quando contano troppo, ma sempre per entrambi.

Certo, che pena. Mi torna alla mente l’ultima intervista a Giorgio Bocca in casa sua. Dopo averlo sentito enumerare per due ore le nefandezze del mondo, gli chiesi: ma secondo te esiste ancora qualcosa di pulito in cui credere? Gli occhi di Bocca si illuminarono: «Oh sì! Un bicchiere di vino rosso e una bella partita in tv». Come tutti i vecchi, era tornato bambino. Non ebbi il coraggio di rovinargli l’incanto, suggerendogli di circoscrivere i suoi sogni di purezza al vino.

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