L'America, la Cina e la sfida del clima

Dalla Rassegna stampa

A problemi globali risposte globali. Questo mantra circola nei media e nella retorica pubblica occidentale, e non solo. Ha la forza dell´autoevidenza. A scavare appena sotto la superficie, tale verità appare meno assoluta. Nulla come la questione climatica rivela lo iato fra le politiche dei governi e delle organizzazioni che cercano di affrontarla - o fingono di farlo - a partire dai propri interessi e la propaganda universalista che le veste.
In questo senso non rileva sapere chi abbia ragione, fra la grande maggioranza degli scienziati che denuncia il riscaldamento dell´atmosfera terrestre e ne attribuisce la responsabilità primaria all´uomo, e chi invece l´attribuisce ad altri fattori, su cui non potremmo intervenire, o addirittura sostiene che il clima si sta raffreddando. Una vera e propria guerra di religione, con trucchi e colpi bassi, essendo in gioco corposi interessi - finanziamenti alla ricerca, status, ma soprattutto vincoli alla crescita economica dei singoli paesi - che però non cambia la sostanza del problema: si può, si vuole affrontare tutti insieme una questione che interessa ciascuno in quanto abitante del pianeta? Persino accettando il punto di vista negazionista, ciò implicherebbe fondamentali decisioni di tutti gli attori politici ed economici, a cominciare dalla rinuncia a qualsiasi grado di controllo delle emissioni di gas serra.
Il dibattito che ha preceduto la conferenza internazionale di Copenaghen, destinata a disegnare il dopo-Kyoto, ossia a sancire normativamente modi e tempi della riduzione delle emissioni di anidride carbonica, sembra falsificare il postulato globalista: sul tema planetario per eccellenza prevalgono risposte nazionali, asimmetriche, scoordinate. Il caso cinese e quello americano lo dimostrano palesemente.
La Cina assicura di voler ancorare il suo galoppante sviluppo ai precetti della knowledge economy e si scopre un´anima verde, promettendo di ridurre entro il 2020 i "suoi" gas serra per unità di pil del 40-45% rispetto al 2005. Si può dubitare della fattibilità di un simile obiettivo, considerando che crescendo al ritmo dell´ultima generazione (un 10% annuo, forse più) resta difficile immaginare, a meno di una rivoluzione tecnologica, che in dieci anni i cinesi possano raddoppiare il prodotto interno lordo e quasi dimezzare i gas serra per unità di prodotto. In ogni caso, si tratta di una scelta sovrana proclamata da Pechino, non vincolata a nessun trattato internazionale.
Quanto a Obama, che aveva fatto dell´ecologismo uno dei suoi cavalli di battaglia in campagna elettorale, ora promette di abbattere le "sue" emissioni del 17%, sempre entro il 2020. Ma se il Congresso non gli darà via libera, queste parole resteranno vuote. Ancora una volta, sono i singoli paesi - e quali paesi! - che decidono di questioni che ci toccano tutti. Il parallelismo Obama-Hu Jintao in campo ambientale, e in prospettiva nei trasferimenti strategici di tecnologie, segnala che anche il clima sarà in futuro affare da G2. Il tono verrà da Washington e da Pechino, o non verrà.
Al di là delle sovranità nazionali gelosamente difese da chi le detiene, c´è un elemento più fondamentale che impedisce una politica globale sul riscaldamento (o in ipotesi sul raffreddamento) climatico: le diverse percezioni sui suoi effetti a seconda delle latitudini in cui si vive. Per i paesi africani o financo mediterranei minacciati dall´avanzata delle desertificazione, l´innalzamento di un paio di gradi della temperatura media del pianeta equivale alla catastrofe. Per i paesi nordici - specie gli artici - il quadro è rovesciato, o quasi. È già in corso la competizione fra americani, russi, canadesi, norvegesi, danesi e altri Stati del Grande Nord per accaparrarsi le materie prime artiche, a cominciare dagli idrocarburi, che diventerebbero sempre più accessibili per lo scioglimento dei ghiacci. Un fenomeno che sta aprendo nuove rotte commerciali transcontinentali e potrebbe rivoluzionare i commerci internazionali.
Insomma, la Terra è una e la specie umana pure, ma ci comportiamo come fossero tante. Non sarà Copenaghen a cambiarci la testa.

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