L'agenda del Presidente

Arginare un debito pubblico cresciuto a dismisura negli ultimi anni, ma senza far precipitare l’America in una nuova recessione. Ridare un po’ di respiro a un ceto medio decimato dall’impatto della globalizzazione e da quello della crisi scoppiata nel 2008. Trovare un nuovo equilibrio nei rapporti economici e strategici con la Cina che consenta agli Usa di tutelare meglio gli interessi delle loro imprese e del lavoro, senza mettere in pericolo la stabilità della regione Asia-Pacifico. Concludere la missione militare in Afghanistan e continuare a sostenere i fermenti democratici in Medio Oriente e Nord Africa senza mollare neanche per un attimo la lotta implacabile contro il terrorismo e il sostegno a Israele. E poi guardare avanti: darsi di nuovo una prospettiva da Paese-guida fatta non solo di rapporti geostrategici e di forza militare, ma anche di rilancio della ricerca e dell’innovazione, e di una formazione scolastica che è assai decaduta. Mai come stavolta, ha detto Barack Obama, agli americani è stato offerto di scegliere tra due visioni nettamente diverse del mondo, dei rapporti economici e sociali. È vero, ma solo nel senso che le piattaforme dei due partiti hanno risentito della radicalizzazione della lotta politica degli ultimi anni. Un presidente, però, deve essere un uomo soprattutto pragmatico e la scelta di tutti e due i candidati di mantenersi sul vago sui punti specifici della loro agenda di governo, su entità e tempi degli interventi che intendono adottare, indica che la Casa Bianca - chiunque sia il prossimo inquilino - tornerà a essere luogo di mediazione e di ricerca di accordi bipartisan. Certo, nell’agenda repubblicana è prioritario far saltare un pezzo di Obamacare (ma alla fine l’intervento potrebbe anche rivelarsi più simbolico che sostanziale) ed è scritta anche una maggiore resistenza all’aumento del prelievo fiscale. Ma il leader repubblicano arrivato all’appuntamento della sfida con Obama è molto diverso da quello, costretto a schiacciarsi sulle posizioni radicali dei Tea Party e della destra religiosa, della stagione delle primarie repubblicane. E anche l’Obama che fino all’ultimo ha promesso ai deboli di continuare a fare i loro interessi si accinge a salvare il salvabile dello «Stato sociale». Che potrebbe anche non essere molto. I leader democratici sanno che, se continuerà a governare, Obama dovrà cercare un compromesso e stanno già tastando il terreno per capire se la destra accetterebbe un aumento delle tasse sui ricchi esentando chi ha un reddito inferiore a un milione di dollari l’anno anziché sotto i 250 mila come ipotizzato dal presidente. Chi governerà farà cose che non piaceranno ai suoi elettori, ma non avrà scelta: l’America si regge sul miracolo di mercati che pagano per prestare soldi al Tesoro di Washington (che paga interessi inferiori all’inflazione). Né i democratici né i repubblicani possono permettersi di uccidere questa gallina dalle uova d’oro.] Arginare un debito pubblico cresciuto a dismisura negli ultimi anni, ma senza far precipitare l'America in una nuova recessione. Ridare un po' di respiro a un ceto medio decimato dall'impatto della globalizzazione e da quello della crisi scoppiata nel 2008. Trovare un nuovo equilibrio nei rapporti economici e strategici con la Cina che consenta agli Usa di tutelare meglio gli interessi delle loro imprese e del lavoro, senza mettere in pericolo la stabilità della regione Asia-Pacifico. Concludere la missione militare in Afghanistan e continuare a sostenere i fermenti democratici in Medio Oriente e Nord Africa senza mollare neanche per un attimo la lotta implacabile contro il terrorismo e il sostegno a Israele. E poi guardare avanti: darsi di nuovo una prospettiva da Paese-guida fatta non solo di rapporti geostrategici e di forza militare, ma anche di rilancio della ricerca e dell'innovazione, e di una formazione scolastica che è assai decaduta.
Mai come stavolta, ha detto Barack Obama, agli americani è stato offerto di scegliere tra due visioni nettamente diverse del mondo, dei rapporti economici e sociali. È vero, ma solo nel senso che le piattaforme dei due partiti hanno risentito della radicalizzazione della lotta politica degli ultimi anni. Un presidente, però, deve essere un uomo soprattutto pragmatico e la scelta di tutti e due i candidati di mantenersi sul vago sui punti specifici della loro agenda di governo, su entità e tempi degli interventi che intendono adottare, indica che la Casa Bianca - chiunque sia il prossimo inquilino - tornerà a essere luogo di mediazione e di ricerca di accordi bipartisan.
Certo, nell'agenda repubblicana è prioritario far saltare un pezzo di Obamacare (ma alla fine l'intervento potrebbe anche rivelarsi più simbolico che sostanziale) ed è scritta anche una maggiore resistenza all'aumento del prelievo fiscale. Ma il leader repubblicano arrivato all'appuntamento della sfida con Obama è molto diverso da quello, costretto a schiacciarsi sulle posizioni radicali dei Tea Party e della destra religiosa, della stagione delle primarie repubblicane.
E anche l'Obama che fino all'ultimo ha promesso ai deboli di continuare a fare i loro interessi si accinge a salvare il salvabile dello «Stato sociale». Che potrebbe anche non essere molto. I leader democratici sanno che, se continuerà a governare, Obama dovrà cercare un compromesso e stanno già tastando il terreno per capire se la destra accetterebbe un aumento delle tasse sui ricchi esentando chi ha un reddito inferiore a un milione di dollari l'anno anziché sotto i 250 mila come ipotizzato dal presidente.
Chi governerà farà cose che non piaceranno ai suoi elettori, ma non avrà scelta: l'America si regge sul miracolo di mercati che pagano per prestare soldi al Tesoro di Washington (che paga interessi inferiori all'inflazione). Né i democratici né i repubblicani possono permettersi di uccidere questa gallina dalle uova d'oro.
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