Per l’Italia che innova ora è il tempo dei fatti

Dell’immagine di Torino come città frontiera e "laboratorio" nazionale dell’industrialismo italiano si è spesso abusato. Ma che Torino e il suo storico stabilimento del Lingotto, ora grande centro multifunzionale dove ha sede il quartier generale di Fiat, siano i testimoni della transizione italiana tra conservazione e innovazione nessuno può negarlo. Oggi come ieri.
L’oggi si specchia nella terza volta di Walter Veltroni al Lingotto. Veltroni è un leader di lungo corso della sinistra fin dagli anni Ottanta. Sabato scorso ha confermato il suo "sì" convinto agli accordi raggiunti su Pomigliano e Mirafiori e ha spiegato che senza questi accordi la Fiat non avrebbe investito, senza per questo preoccuparsi di apparire sulle stesse posizioni espresse dal governo e da Berlusconi in persona. Ha poi detto che l’Italia avrebbe visto ridimensionata una presenza industriale che andava invece rilanciata e per la quale l’azienda è chiamata ora ad inventare prodotti competitivi sui mercati di tutto il mondo.
Dunque i tempi del Lingotto1 di Veltroni (gennaio 2000, quando era segretario dei Ds e al timone del governo c’era Massimo D’Alema) appaiono più lontani che mai. Anche allora si parlava di modernizzazione del paese, e c’erano in campo - dopo il dibattito nel centrosinistra di fine anni Novanta su come modificare la legislazione sui licenziamenti e l’adozione del "pacchetto Treu" sulla flessibilità - i referendum in materia di lavoro promossi dai radicali italiani. Ma prevalse allora il leader della Cgil Sergio Cofferati col suo potere di veto: proprio al Lingotto Cofferati chiese (e ottenne) da D’Alema il pronunciamento sul "no" ai referendum sociali. E passò così a sinistra la linea conservatrice, la stessa che un anno prima aveva portato la Cgil a non firmare a Palazzo Chigi l’accordo sul contratto di area, di Gioia Tauro, secondo "strappo" della storia sindacale dopo quello sull’accordo sulla scala mobile del 1984.
Ma quasi nessuno (tranne qualche eccezione, tra cui spicca l’Avvenire) ricorda un’altra Torino. Quella di Marco Biagi, il giuslavorista consulente dell’allora ministro del Welfare Roberto Maroni ucciso dalle Brigate rosse nel marzo 2002.
Riformista di matrice socialista, cattolico e già collaboratore del ministro Treu ai tempi del primo governo Prodi, Biagi aveva ispirato il famoso "Libro bianco"sul mercato del lavoro del governo Berlusconi dopo aver "progettato" il "Patto di lavoro per Milano" del 2000, duramente contrastato da Cofferati.
All’Unione industriali di Torino, a fine febbraio 2002, il convegno era intitolato "Progettare il futuro delle relazioni industriali". Biagi, accusato di "collateralismo" con la Confindustria mi disse di sentirsi addosso critiche false e ingiuste. Era lucido e in fondo disperato, quasi prevedesse uno sbocco drammatico. Proprio in quella sala, forte delle sue intuizioni, aveva pronunciato parole chiare: «Il secondo livello della contrattazione potrebbe maggiormente essere liberalizzato: all’impresa dovrebbe essere consentito di disapplicare il contratto collettivo di primo livello, nel caso raggiunga un accordo aziendale o addirittura nel singolo stabilimento, che disciplina quelle stesse materie regolate a livello superiore».
Il dibattito nel merito sui modelli tedesco e americano era ancora di là da venire, ma Biagi aveva la vista lunga anche se in quella stagione passava, mediaticamente, per l’uomo che aveva come obiettivo la messa in discussione del licenziamento ingiustificato e un mercato del lavoro selvaggio e iper-liberista. Poco importa che già allora riflettesse sulla necessità di individuare un nuovo e più dinamico modello di relazioni industriali che superasse quello (utile soprattutto in chiave antinflazionistica) fissato dal Protocollo del 1993 voluto dal governo Ciampi.
Abbiamo dovuto attendere il 2009 per l’intesa-quadro (non sottoscritta dalla Cgil) fortemente voluta dalla presidente di Confindustria Emma Marcegaglia che ha riformato la contrattazione. E che ha aperto la strada ad accordi, come quelli Fiat, già largamente praticati in paesi come Germania e Francia dove lo scambio tra maggiore produttività e maggiori salari non viene identificato con la lesione dei diritti costituzionali.
È la crescita, del resto, la vera posta in gioco assieme a tutte le riforme, finite in penombra o tornate nei cassetti, che possono favorirla. A cominciare da subito, e si comprendono le preoccupazioni degli industriali per lo stallo del quadro politico. L’accordo del 2009 si chiude non a caso con queste parole: «L’obiettivo è il rilancio della crescita economica, lo sviluppo occupazionale e l’aumento della produttività anche attraverso l’indicazione condivisa da governo, imprese e sindacati per una politica di riduzione della pressione fiscale sul lavoro e sulle imprese nell’ambito degli obiettivi e dei vincoli di finanza pubblica».
Si è aperta una "fase nuova", ha detto sabato scorso Veltroni, paragonabile a quella in cui si affermò decine di anni fa una nuova legislazione del lavoro (lo Statuto dei lavoratori data 1970, ndr). È dunque arrivato il tempo buono per i riformisti in viaggio verso nuove relazioni industriali più baricentrate in azienda e verso la partecipazione dei lavoratori alla vita dell’impresa. Senza schematismi ideologici di sorta.
Anche rispetto a Lingotto2 del 2007 (quando Veltroni lanciò la sua candidatura alla leadership del Pd) e alla stessa sfida perduta contro Berlusconi nel 2008, analisi e proposte sono più nitide e marcate. A conferma che il caso Mirafiori-Marchionne costringe tutti, politici compresi, a ragionare sulla realtà e non su un futuro radioso che verrà in un tempo e in luogo indefiniti. Il tempo buono è quello dei fatti, qui e ora, per tornare a crescere davvero.
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