L’amarezza per le riforme mancate

Dalla Rassegna stampa

Quando, fin dall’inizio di questo autunno, avevo colto i segni del crescere di difficoltà e tensioni nei rapporti tra le forze di maggioranza e tra queste e il governo, mi ero premurato di rivolgere pubblicamente l’invito a «una costruttiva conclusione della legislatura ancora in corso, così da portare avanti la concreta attuazione degli indirizzi e dei provvedimenti definiti dal governo e sottoposti al parlamento».
Ero ben consapevole della pressione che su formazioni politiche tra loro diverse e concorrenti esercitava l’avvicinarsi delle elezioni per il nuovo parlamento, e che esercitava anche l’acuirsi di un diffuso disagio economico e sociale. Il mio invito e il mio sforzo erano motivati dalla convinzione, che mi ha guidato nell’esercizio del mio mandato di presidente, del grande, decisivo valore per il nostro paese della continuità e stabilità istituzionale.
Un valore spesso trascurato nel corso della nostra storia repubblicana, (e per quanti, me compreso, ne siano stati partecipi, potrei dire: scagli la prima pietra chi non l’ha trascurato). Fui mosso da quella convinzione quando nell’autunno del 2011, dinanzi al venir meno della coesione effettiva della maggioranza e della compagine di governo guidate dall’on. Berlusconi, mi studiai di evitare l’aprirsi in modo traumatico di un vuoto istituzionale e il precipitare verso elezioni anticipate in una fase critica e pericolosa per la posizione, non solo finanziaria, dell’Italia. Non occorre ricordare come si giunse allora a una nuova soluzione di governo, fuori dell’ordinario ma non senza precedenti, e certo nell’ambito costituzionale della democrazia parlamentare in quanto al parlamento si rimettevano le sorti dell’esecutivo e di ogni provvedimento di legge da esso deliberato. E d’altronde non è forse bastato il ritiro della fiducia di una componente essenziale della maggioranza per segnare la fine del governo presieduto dal senatore Monti?
Questa conclusione non piena, questa interruzione in extremis dell’esperienza iniziata 13 mesi orsono, non può tuttavia oscurarne la fecondità, al di là del rammarico e della preoccupazione che il suo brusco esito finale ha suscitato anche in chi vi parla in quanto capo dello stato. (...) Ma ben più complesso e critico è il discorso da fare oggi rispetto all’evoluzione del sistema politico. In questi giorni, sulle colonne di un quotidiano, si sono amichevolmente richiamate le aspettative che un anno fa – in occasione di questo stesso tipo di tradizionale incontro – avevo enunciato. L’aspettativa, soprattutto, che – avviandosi e consolidandosi un clima più disteso nei rapporti politici – si producesse un sussulto di operosità riformatrice e anche un moto di rinnovamento dei partiti, del loro modo di essere, del loro rapporto con i cittadini e con la società. Si trattava – debbo dire oggi – di aspettative troppo fiduciose o avanzate, rispetto alle quali si è fatto sentire tutto il peso di resistenze ed ostacoli profondamente radicati, di antichi ritardi, di lenti e stentati processi di maturazione.
Lo dico con amarezza e preoccupazione, perché vengono da ciò alimentati il corso limaccioso dell’antipolitica e il qualunquismo istituzionale. Per le più che mature riforme della seconda parte della Costituzione, quella ora giunta al termine è stata purtroppo un’altra legislatura perduta: anche modeste modifiche mirate, frutto di un’intesa minima, sono naufragate. Il tema dei costi ovvero del finanziamento della politica, e quello connesso dei trattamenti riservati ai parlamentari, hanno formato oggetto di decisioni discutibili ma non trascurabili e da non svalutare, la cui eco è stata però soverchiata dal clamoroso esplodere di indegni abusi di danaro pubblico commessi da numerosi eletti nei consigli regionali.
È in effetti rimasta ancora in larga misura da percorrere – e non solo sotto il profilo della moralità – la strada di una riqualificazione dei partiti politici, secondo regole coerenti col dettato costituzionale. Non sono mancati, è vero, stimoli e aperture a una maggiore partecipazione politica dei cittadini. Ma il fatto imperdonabilmente grave è stato il fallire la prova della riforma della legge elettorale del 2005, su cui pure la Corte costituzionale aveva sollevato seri dubbi di legittimità.
Forte, motivato, tenace è stato il richiamo da parte di tante voci della società civile e del mondo del diritto, e – quante volte! – da parte del presidente della repubblica: ma più forte è stato il sopravvivere delle peggiori logiche conflittuali tra le forze politiche. Diffidenza reciproca, ambiguità di posizioni continuamente mutevoli, tatticismo esasperato: nessuno potrà fare a meno di darne conto ai cittadini-elettori, e la politica nel suo insieme rischia di pagare un prezzo pesante per questa sordità.
Si andrà così al confronto elettorale, mentre il governo dimissionario provvederà, nell’ambito dei suoi poteri, ad attuazioni dovute di leggi già in vigore. Ma non si pensi di poter nascondere agli elettori tutto quel che è rimasto irrisolto di decisivi nodi politico-istituzionali venuti al pettine più che mai nel corso dell’ultimo anno. Essi si sono presentati in un tale intreccio e groviglio che anche interventi generosamente tentati con il concorso di un governo a termine e dominato da assorbenti emergenze come quello presieduto da Mario Monti, hanno sortito effetti solo iniziali o sono stati neutralizzati nella stretta finale della legislatura (...)
Mi sono in questi 7 anni sempre interrogato, senza troppo facili certezze, su ogni scelta impegnativa, prima di compierla e dopo averla compiuta. E ho necessariamente cercato risposte tanto negli esempi offerti dai miei predecessori, quanto nella dottrina e nella giurisprudenza costituzionale. Così anche per quel che riguarda il ruolo del presidente nel conferimento dell’incarico ai fini della formazione del governo. Tale tema torna d’attualità, diversamente da come sarebbe accaduto se – ed è quel che ho fortemente auspicato e, finché possibile, sollecitato – la legislatura si fosse conclusa alla normale scadenza dei 5 anni e le elezioni di fossero svolte nell’aprile del 2013. In tal caso, ad esse, e all’insediamento delle nuove camere, sarebbe succeduta senza soluzione di continuità la convocazione del parlamento in seduta comune per l’elezione del nuovo presidente della repubblica, e a questi sarebbe toccato avviare il procedimento per la formazione del nuovo governo. Così non è stato, me malgrado, e mi trovo a dover chiarire che su me ricadrà un compito nettamente diverso da quello che mi toccò assolvere nel novembre del 2011.
La scelta che ritenni di poter compiere – la sola che avesse un senso e apparisse praticabile – fu quella del conferimento dell’incarico al neo senatore Monti: e da ciò scaturì la formazione di un governo, la cui natura ha dato luogo a discussioni (...). Ebbene, non c’è chi non veda come si stia ora per tornare a una naturale riassunzione da parte delle forze politiche del proprio ruolo, sulla base del consenso che gli elettori accorderanno a ciascuna di esse. E sarà quella la base su cui poggeranno anche le valutazioni del capo dello stato.

 

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