L’amaca

Adesso gli è venuto il ticchio di telefonare a tutte o quasi le trasmissioni tivù, gridando che lui qui e lui lì, che è una vergogna, che è ora di finirla. Non fosse il presidente del Consiglio lo si liquiderebbe come un cafone seriale o come un maniaco grave. Ma essendo il presidente del Consiglio, ogni normale tentativo di diagnosi non basta a definire l’anormale contagio nel quale viviamo, sentendoci, di fatto, parte di quella malattia. Non siamo più - da tempo - dei sani che si occupano di un malato. Siamo parte di quella malattia, in quanto suoi elettori o in quanto suoi incapaci oppositori, in quanto conduttori televisivi e in quanto pubblico, in quanto sessanta milioni di italiani inchiodati allo spettacolo folle (sì: folle) di un singolo individuo che monopolizza i pensieri, i progetti, le angosce di un paese intero. E difatti, ossessionati da lui e ossessionati come lui, ripetiamo (come lui) le stesse frasi da vent’anni, "figurati se Obama o Sarkozy si permetterebbero mai di interrompere strillando un talk-show", "ma quando mai il capo di un governo democratico ha insultato i suoi giudici", "ma come è possibile che i dirigenti della Rai li nomini il proprietario di Mediaset", "ma in che Paese del cacchio ci tocca vivere" eccetera. Possiamo perdonargli tutto, non di averci fatti diventare così annoiati e così noiosi. Per il re dell’entertainment, è una prova di inettitudine senza pari.
© 2011 La Repubblica. Tutti i diritti riservati
SEGUICI
SU
FACEBOOK
SU