Italia che verrà, terra incognita

Dalla Rassegna stampa

Sotto la frusta implacabile dei mercati, sta venendo allo scoperto il vero nodo della politica italiana: che faranno quelli che andranno al governo dopo Monti? Proseguiranno le sue riforme o invertiranno la marcia? Dalla risposta dipende, tra le tante cose, anche lo spread. Eppure di come sarà governato il nostro Paese dalla prossima primavera in poi nessuno oggi sa niente. Nelle carte geografiche che orientano gli investitori stranieri, sull’Italia post 2013 c’è la scritta «hic sunt leones». La verità è che dobbiamo dare garanzie anche sul futuro. Lo ha riconosciuto per la prima volta il premier, lo ha detto ieri esplicitamente Napolitano, ed è il cuore della lotta politica non solo nel Pdl ma anche nel Pd, soprattutto dopo che quindici esponenti di quel partito hanno apertamente chiesto, nella lettera pubblicata ieri dal Corriere , un impegno a proseguire nell’agenda Monti anche dopo il voto dell’anno prossimo. Che questa discussione cominci nel Pd è particolarmente importante: perché si tratta del partito cui i sondaggi attribuiscono le maggiori probabilità di vittoria, e perché finora si è mosso su una linea di doppiezza togliattiana. Il Pd appoggia infatti il governo per senso di responsabilità (e gliene va dato atto, visto che avrebbe anche potuto cercare la pericolosa scorciatoia delle elezioni anticipate); però non sostiene veramente quasi nessuno dei suoi provvedimenti, li vota perché deve ma li critica appena può, mugugna e spesso annunzia che una volta al governo li cambierà. Non è solo Fassina, che pure è il ministro-ombra dell’Economia; né sono solo i titoli dell’Unità, che s’entusiasma perfino per il presidente di Confindustria purché attacchi Monti. E non è neanche solo il Pd. Non bisogna sottovalutare infatti la forza di condizionamento che una sinistra intellettuale e sindacale da sempre refrattaria alle responsabilità del governo ancora esercita su un partito dalle convinzioni programmatiche incerte, e che lo spinge a farla finita con Monti, con il rigore, con la Merkel e magari anche con il vincolo europeo, fino a giocare con il fuoco del default contrattato. Questo piccolo mondo antico eserciterà tutta la sua capacità di ricatto politico in caso di primarie, quando i candidati alla leadership del Pd avranno bisogno di voti. È per questo, credo, che i quindici «montiani» del Pd sono venuti allo scoperto proprio ora, temendo una deriva elettorale. Naturalmente iniziative del genere portano con sé il sospetto di voler spianare la strada a un Monti bis o a una Grande Coalizione, e di sbarrarla dunque a un governo Bersani. È probabile che tra i firmatari ci sia chi lavori per questa prospettiva. In effetti, fare propria l’agenda Monti risolverebbe nel Pd anche il dilemma delle alleanze: sarebbe infatti impossibile realizzare quel programma con Vendola o con Di Pietro, e i compagni di strada andrebbero cercati altrove. Ma anche chi vuole un rapido ritorno a una normale fisiologia bipolare del nostro sistema politico deve sapere che non potrà in ogni caso trattarsi di un bipolarismo fatto di due opposizioni, e cioè composto da una destra e una sinistra entrambe contrarie alle politiche necessarie per salvare l’Italia dal baratro. L’illusione che si possa restare in Europa infischiandosene dell’Europa si è rivelata tale anche in Grecia. Se le forze politiche responsabili non saranno in grado di garantire loro, dopo il 2013, ciò che il governo Monti sta facendo, allora sì che il governo Monti potrebbe dimostrarsi l’unica proposta politica seria rimasta agli italiani.] Sotto la frusta implacabile dei mercati, sta venendo allo scoperto il vero nodo della politica italiana: che faranno quelli che andranno al governo dopo Monti? Proseguiranno le sue riforme o invertiranno la marcia? Dalla risposta dipende, tra le tante cose, anche lo spread. Eppure di come sarà governato il nostro Paese dalla prossima primavera in poi nessuno oggi sa niente. Nelle carte geografiche che orientano gli investitori stranieri, sull'Italia post 2013 c'è la scritta «hic sunt leones».

La verità è che dobbiamo dare garanzie anche sul futuro. Lo ha riconosciuto per la prima volta il premier, lo ha detto ieri esplicitamente Napolitano, ed è il cuore della lotta politica non solo nel Pdl ma anche nel Pd, soprattutto dopo che quindici esponenti di quel partito hanno apertamente chiesto, nella lettera pubblicata ieri dal Corriere , un impegno a proseguire nell'agenda Monti anche dopo il voto dell'anno prossimo.

Che questa discussione cominci nel Pd è particolarmente importante: perché si tratta del partito cui i sondaggi attribuiscono le maggiori probabilità di vittoria, e perché finora si è mosso su una linea di doppiezza togliattiana. Il Pd appoggia infatti il governo per senso di responsabilità (e gliene va dato atto, visto che avrebbe anche potuto cercare la pericolosa scorciatoia delle elezioni anticipate); però non sostiene veramente quasi nessuno dei suoi provvedimenti, li vota perché deve ma li critica appena può, mugugna e spesso annunzia che una volta al governo li cambierà. Non è solo Fassina, che pure è il ministro-ombra dell'Economia; né sono solo i titoli dell'Unità, che s'entusiasma perfino per il presidente di Confindustria purché attacchi Monti. E non è neanche solo il Pd. Non bisogna sottovalutare infatti la forza di condizionamento che una sinistra intellettuale e sindacale da sempre refrattaria alle responsabilità del governo ancora esercita su un partito dalle convinzioni programmatiche incerte, e che lo spinge a farla finita con Monti, con il rigore, con la Merkel e magari anche con il vincolo europeo, fino a giocare con il fuoco del default contrattato. Questo piccolo mondo antico eserciterà tutta la sua capacità di ricatto politico in caso di primarie, quando i candidati alla leadership del Pd avranno bisogno di voti. È per questo, credo, che i quindici «montiani» del Pd sono venuti allo scoperto proprio ora, temendo una deriva elettorale.

Naturalmente iniziative del genere portano con sé il sospetto di voler spianare la strada a un Monti bis o a una Grande Coalizione, e di sbarrarla dunque a un governo Bersani. È probabile che tra i firmatari ci sia chi lavori per questa prospettiva. In effetti, fare propria l'agenda Monti risolverebbe nel Pd anche il dilemma delle alleanze: sarebbe infatti impossibile realizzare quel programma con Vendola o con Di Pietro, e i compagni di strada andrebbero cercati altrove. Ma anche chi vuole un rapido ritorno a una normale fisiologia bipolare del nostro sistema politico deve sapere che non potrà in ogni caso trattarsi di un bipolarismo fatto di due opposizioni, e cioè composto da una destra e una sinistra entrambe contrarie alle politiche necessarie per salvare l'Italia dal baratro. L'illusione che si possa restare in Europa infischiandosene dell'Europa si è rivelata tale anche in Grecia. Se le forze politiche responsabili non saranno in grado di garantire loro, dopo il 2013, ciò che il governo Monti sta facendo, allora sì che il governo Monti potrebbe dimostrarsi l'unica proposta politica seria rimasta agli italiani.

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