Israele non si piega: "Avanti con le colonie"

Pronto, Silvio? Pronto, Angela? Più inquieto che preoccupato, sabato il premier israeliano Bibi Netanyahu aveva chiamato gli amici europei che gli rimangono, Berlusconi e la Merkel, per capire da loro che cosa stesse succedendo a Washington. Non aveva ancora finito di scusarsi per la gaffe durante la visita di Joe Biden, il vice di Obama messo in pubblico imbarazzo con l'annuncio dei 1.6oo alloggia Gerusalemme, che Hillary Clinton aveva rincarato furiosa. Domenica, di nuovo: aveva appena minimizzato la crisi diplomatica con gli Usa, chiedendo ai suoi nervi saldi, ed ecco spuntare un consigliere di Obama a definirsi «insultato». Ieri, Bibi ha gettato ogni cautela, è andato alla Knesset e l'ha detto chiaro.
Niente dietrofront, basta scuse: «Negli ultimi 42 anni, nessun governo israeliano ha mai limitato le costruzioni nei dintorni di Gerusalemme. Le costruzioni continueranno». Avanti betoniera. Non si ferma «la peggior crisi fra Israele e Stati Uniti dal 1975», come la definisce Michael Oren, oggi ambasciatore di Gerusalemme a Washington: roba che ricorda l'ira di Ford ai tempi del Sinai, o momenti neri come la nave americana affondata in piena guerra dei Sei giorni o ancora, in era Reagan, il clamoroso arresto dello spione Pollard. La furia di Obama viene descritta come autentica, ma anche Netanyahu non scherza e la diffidenza è reciproca: se l'America vuole più fatti nel congelamento delle colonie, Israele vorrebbe meno chiacchiere nel confronto con l'Iran; se Barack ricorda d'aver applaudito quando Bibi annunciò 1o mesi di moratoria nelle nuove costruzioni, Bibi non dimentica d'aver sottolineato a Barack che - da quella moratoria - è sempre stata esclusa Gerusalemme; e se c'è chi nota l'errore d'aver parlato
delle case di Ramat Shlomo in piena visita di Stato, c`è chi osserva come quelle case fossero già decise da tre anni e nessun inviato americano, nemmeno il George Mitchell in arrivo oggi, le aveva pubblicamente contestate. Ragioni e torti s'incrociano, come in ogni lite fra amici. Sempre che di vera rissa si tratti e non, per dirla con l'ex ambasciatore Avi Pazner, d'un malinteso.
Perché dietro le parole, cominciano i sospetti. Con la Casa Bianca che si chiede fin dove Bibi sia ostaggio dei suoi alleati di governo più estremisti. Con un anonimo ministro israeliano, intervistato da Ma'ariv, che si domanda se Obama non stia in realtà «cercando di far cadere
Netanyahu». Il dilemma d'Israele è: c'è qualcosa di sproporzionato in questa rabbia, come ha scritto un commentatore, o davvero (parole di Yedioth Ahronot) «stiamo perdendo il sostegno di un'intera ala dell'ebraismo americano, la sinistra moderata, che giudica provocatoria la politica di Netanyahu»?
Una risposta, Bibi ieri se l'è data. Meno lampante se Obama abbia le idee altrettanto chiare: un segnale sarà fra un mese, a Washington, dove il premier israeliano è atteso per la conferenza sul nucleare e ha in agenda un incontro col presidente Usa. «Israele resta un alleato strategico - dice un portavoce del Dipartimento di Stato -. Però attendiamo una sua risposta formale». Abbastanza forte da sentirsi fin laggiù.
© 2010 Corriere della Sera. Tutti i diritti riservati
SU
- Login to post comments