Intervista a Pier Luigi Bersani: "Col badile contro le leggine, ma sulle riforme vere pronto da domani"

Dalla Rassegna stampa

«Io sono pronto a discutere di riforme anche domattina. Dice: ci sono le regionali. Va bene. Sono disposto lo stesso ad aprire il tavolo. Ma dall’altra parte che ne pensano?». Nonostante faccia fatica a essere ottimista, Pier Luigi Bersani non vuol rassegnarsi a dichiarare già chiusa la stagione delle riforme: «Ancor prima di diventare segretario - dice il segretario del Pd in questa intervista al Riformista - ho cercato di riannodare il filo del dialogo con la cultura costituzionalista. Vorrei ripartire da quello che disse Nilde Jotti nel 1980, un anno dopo essere diventata presidente della Camera: “Se qui non ammoderniamo il sistema parlamentare, se non facciamo il Senato delle autonomie, se non riduciamo il numero dei parlamentari, noi rischiamo di veder crescere in questo paese una spinta di tipo populista”. Era il 1980. Siamo ancora lì, con un’unica certezza in più: che quel presagio era fondato». E perché non se ne esce? Non lo vuole la destra. Ormai lavoro per rendere evidente che non siamo noi che non vogliamo il tavolo. Sono loro che sono consapevoli che quel tipo di confronto metterebbe in chiaro molte cose e sarebbe una sfida molto complessa.

E di cosa avrebbe paura la destra?

Ha già perso un referendum sulla Costituzione e forse ci conosce meglio di quanto ci conosciamo noi stessi, cioè sa che per noi ci sono, quando si parla di riforme, dei paletti insuperabili. Vogliamo restare nei confini di un regime parlamentare, modernizzando questo sistema, puntando a una reciprocità del rafforzamento dei poteri, sia del governo che del Parlamento, e facendo discendere da questo un meccanismo elettorale. Questa è la nostra sequenza.

Ma non potete pretendere che la maggioranza compri in blocco. Nel Pdl molti dicono che il punto di approdo della riforma non può che essere il presidenzialismo.

Naturalmente quando ci si presenta a trattare non si dice mai “o così o pomì”. E non ho problemi a riconoscere uguale dignità a sistemi presidenziali bilanciati e a sistemi parlamentari. Ma io dico, e sono fermo su questo punto, che nella concreta situazione italiana il rischio di avere in testa astrattamente un modello francese o americano e poi trovarsi nell’Argentina di trent’anni fa è enorme. Per ragioni di fondo, strutturali. Se si valicano questi limiti, noi andremo a chiedere il parere del popolo italiano per via referendaria. Forse nel nostro mondo non è ancora chiaro a tutti che abbiamo quest’arma a disposizione.

Nel vostro mondo molti associano naturalmente il dialogo all’inciucio.

Ci sono queste remore che mi arrivano alle orecchie, del tipo “ma se vai a discutere con quelli cadi nella rete”. E no, cado nella rete se non trovo il modo di discutere. Non solo perché un partito riformista non può che volere le riforme. Ma anche perché, in concreto, stare fermi significa accettare una ristrutturazione di fatto in chiave autoritaria. C’è la prova provata che il meccanismo del consenso che prevale sulle regole è già innestato. Questo è il punto dirimente. Legge elettorale, iperdecretazione, voti di fiducia stanno già deformando il meccanismo allontanandoci da un sistema parlamentare moderno. A vedere come si è ridotto negli ultimi due anni il Parlamento c’è da aver paura. Nell’ultima settimana alla Camera siamo stati impegnati a discutere tre mozioni. Tutte le decisioni passano da decreti. Il Parlamento non ha più becco su niente. Bisogna o no far qualcosa? Bisogna. Allora possiamo trovare una soluzione condivisa oppure andare incontro a forzature da parte loro. Io accetto la sfida. Se riesco a portare il risultato, bene. Se no, ho comunque la garanzia di poter chiedere al popolo italiano cosa ne pensa.

Si può essere d’accordo sull’analisi, ma poi la realtà è che si discute solo del salvacondotto giudiziario al premier. Che idea si è fatto del dietrofront sul decreto bloccaprocessi?

Immagino che stiano ancora ragionando se è il caso di accontentarsi di scialuppette che durano qualche mese o di cercare di saltare su un barcone che li porti su sponde sicure.

Il ritiro del decreto può essere il segno che il governo vuole evitare nuove forzature?

Sono scettico. Il rientro in commissione del processo breve non mi fa ben sperare. E noi contro quella roba lì andiamo giù col badile, perché non sta in piedi in nessun modo.

Oscar Luigi Scalfaro dice che uno scudo per le alte cariche è un tema fondato. E alcuni parlamentari del Pd lavorano al ripristino dell’immunità parlamentare. Sono fuori linea?

Scalfaro ha ragione, è un tema. Ma io non vedo nessuna condizione per affrontarlo se non in un quadro di riforme generali. Se invece da trent’anni si parla di riforme e poi le si declina solo in termine di interesse del singolo o di un diverso trattamento - così è stato percepito - dei parlamentari, allora non va. Non dobbiamo trascurare questo aspetto: ripristinare la popolarità del Parlamento, che è arrivata ai minimi termini.

Ma se il tema dello scudo giudiziario esiste, qual è in concreto la proposta del Pd?

Una riforma di sistema. Altrimenti il problema è sempre lo stesso: ogni qual volta pretendi di nascondere dietro una presunzione di generalità una soluzione ad personam incappi in meccanismi difficili da gestire, come il processo breve, che è uno stravolgimento totale dei meccanismi di giustizia. D’altra parte, man mano che ti avvicini a soluzioni che individuano in modo più preciso una soluzione cucita su misura del singolo ti esponi all’incostituzionalità. Non è un caso che, nonostante ne abbiano provate tante, ancora non hanno trovato una soluzione. Allora io a Berlusconi suggerisco: la metta su da statista. Dica: non voglio mettere davanti il mio caso personale, vedo che c’è un opposizione disponibile a parlare di riforme, facciamo un discorso di sistema. Perché il processo breve per noi non è potabile né digeribile. E per giunta sfocia in un’amnistia per i colletti bianchi.

E cosa pensa dell’altro dietrofront del governo? Tagliare le tasse non si può, dice Berlusconi.

Paradossale. Dice che non si può discutere di tasse perché c’è la crisi, ma altrove ne parlano proprio perché c’è la crisi, con interventi per favorire consumi e investimenti, come in Inghilterra. Abbiamo un enorme problema di agenda. Tutti i paesi europei hanno aperto l’anno parlando di lavoro, green economy, crisi industriale e fisco. Da noi invece funziona così: Berlusconi dice che bisogna tagliare le tasse. Tremonti dice che è d’accordissimo, e aggiunge un però. Il giorno dopo anche Berlusconi dice “però”. Questo disvela il tono propagandistico con cui il governo parla di fisco.

Propagandistico? Se così fosse avrebbero tenuto in piedi la finzione fino alle regionali, non crede?

Già prima delle regionali ci sono scadenze che avrebbero imposto chiarezza sulle entrate e sulle risorse a disposizione. Questo governo ci ha abituato a farci correre dietro le palle perse.

Forse perché l’opposizione non sembra capace di lanciare lei la palla.

Propongo tre temi e altrettanti dibattiti parlamentari in diretta. Primo, lavoro giovanile. Secondo, scuola, che è in una situazione disastrata. Terzo, il fisco, ma il fisco 2010, non i dibattiti accademici sulle aliquote. Il che non impedisce che in parallelo la commissione affari costituzionali affronti il lavoro delle riforme.

A proposito di ostacoli interni al Pd. Ogni volta che si parla di cambiare la legge elettorale, scoppia la rivoluzione. Maggioritari contro “tedeschi”, bipolaristi contro bipartitisti. Se ci fosse la stessa passione su altri temi avreste risolto un po’ dei vostri problemi...

Non sono agnostico, ma diffido della modellistica. Chi comincia la discussione col modello perfetto - inglese, spagnolo o tedesco che sia - sbaglia. Ma abbiamo una legge dove i parlamentari sono nominati, e chi nomina i parlamentari li comanda. L’evoluzione del sistema è bloccato da questa ricattabilità. Non solo. Questo meccanismo, lo faccia dire a uno che è abituato a scarpinare per il paese, ha messo la pistola la tempia alla società. Se uno impara che domattina a causa di una riga in un decreto e un voto di fiducia può stare peggio di come stava ieri, si accontenta. E non va bene. Allora cambiamo e mettiamo alcuni punti fermi: che i parlamentari non si nominano, che ci deve essere una significativa quota di eletti nella dimensione territoriale, poi in un sistema misto troveremo un punto di equilibrio tra maggioritario e proporzionale.

Altro tabù della sinistra: la separazione delle carriere in magistratura. Non le sembra il modo migliore di garantire la terzietà del giudice?

Non ho ancora sentito una risposta alla seguente domanda: da chi dipenderebbe poi la magistratura inquirente? Ricordo che all’ultimo congresso dei radicali si parlava soprattutto di due grandi argomenti: la vergogna della Rai partitocratica e la magistratura che va organizzata come negli Stati Uniti. Salgo sul palco e dico a Pannella: “Marco, non è che separi le carriere come negli Usa e poi scopri che in Italia la magistratura diventa una Rai?”.

Per fortuna le regioni non hanno competenza sulla giustizia. Così se Emma Bonino vince nel Lazio non corre rischi...

Sono fiducioso su Emma. Nel Lazio siamo in condizioni di giocarcela nonostante le traversie, anche perché piano piano emergerà che dall’altra parte la presunta indipendenza e trasversalità della Polverini non reggono alla prova della campagna elettorale. Se ti trovi accanto Storace non è che puoi raccontare di essere in un altro film.

E la questione cattolica esplosa nel Pd per la candidatura di una radicale?

Ho lavorato insieme a Emma e so che ha capacità di ragionare in una logica di coalizione. E se un Franco Marini e altri cattolici del Pd hanno appoggiato questa scelta, è perché l’hanno vista all’opera. Detto questo, Bonino è donna fuori dagli stereotipi e quindi sono sicuro che è anche capace di tenere conto che serve equilibrio su questo punto.

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