Intervista a Massimo Bordin: "I pm non chiesero mai scusa, anzi vennero tutti promossi"

Dalla Rassegna stampa

«Non solo non hanno mai pagato dazio. Ma i pm del caso Tortora sono stati addirittura promossi a ruoli di primo piano». Per Massimo Bordin già direttore di Radio Radicale, all’epoca dei fatti cronista giudiziario - è questo «il problema vero» della vicenda processuale che 30 anni fa coinvolse il conduttore televisivo e si risolse poi con l’accertamento di un clamoroso errore.

Bordin, ma perché allora tutti credettero ai pm, senza farsi troppe domande?
Il processo di Napoli fu il primo maxi processo della storia italiana. L’emergenza terrorismo si era allentata, era diventata centrale la questione mafiosa. A Napoli la camorra uccideva una persona al giorno, e lo stesso faceva la mafia in Sicilia. Il clima era questo. La stampa aveva una grande e benevola attenzione per il processo di Napoli perché uno dei pm, Lucio Di Pietro, aveva condotto un processo per terrorismo molto importante. I giornali napoletani, in particolare quelli di sinistra, diedero una forte apertura di credito ai i magistrati. E, naturalmente, gli inviati dei grandi quotidiani erano influenzati dai colleghi del posto. Fu questo il circolo vizioso che si innescò. L’attenzione si concentra però su Tortora. Tortora diventa la testa di serie di questo processo. Era il solo nome importante, noto. E il processo viene presentato non solo come la grande retata contro la camorra di Cutolo, ma anche come un passaggio fondamentale per recidere i contatti che Cutolo aveva con la finanza e il potere. Anche se a ben vedere questi rapporti non c’erano: i personaggi coinvolti erano tutti di secondo piano, minori. Per cui Tortora serviva a disegnare l’immagine di un’organizzazione capace di avere rapporti nei luoghi che contano.

L’opinione pubblica era in sintonia con la magistratura?
No, l’opinione pubblica era abbastanza dubbiosa e divisa. A orientarla in senso negativo è la stampa. Non si spiegherebbe altrimenti l’enorme successo che ebbe la campagna radicale: Tortora venne eletto al Parlamento europeo con un plebiscito di voti.

Ci furono dei giornalisti che andarono controcorrente?
Pochissimi. Giorgio Bocca, che poi era un giustizialista forsennato, disse che non credeva in quella storia. E poi Enzo Biagi e Indro Montanelli. Tre grandi firme, sì. Che però non riuscirono a orientare i giornali. Tutti colpevolisti. Senza eccezioni.

Come si arriva a capire che era una bufala?
Senza voler essere narcisi, si capisce grazie a un lavoro che fa Radio Radicale e soltanto Radio Radicale. Contro Tortora c’erano le accuse di una ventina di pentiti. I quali erano coinvolti anche in altri processi. Noi - soprattutto nella pausa tra il primo grado e l’appello - seguimmo tutti i processi in cui questi pentiti erano coinvolti. Facemmo un riscontro delle cose che dicevano e ne trovammo molte che non tornavano, che erano contraddittorie.

Perché da cronista giudiziario andasti controcorrente?
Era la linea di Radio Radicale. Appena arrestato, un gruppetto di radicali napoletani decisero che Tortora era innocente. Ma non fu questo l’atteggiamento di Marco Pannella e del partito. I radicali all’inizio sospesero il giudizio. Ma quando divenne chiaro il modo approssimativo in cui venivano condotte le indagini, si schierarono. Pannella diceva: «Non so se Tortora è colpevole. Quello che so è che sono colpevoli i magistrati».

Erano tutti d’accordo su questo punto?
In realtà, ci fu un dibattito tra Pannella e Sciascia. Sciascia insisteva sull’innocenza di Tortora, pensava che quello doveva essere il centro della campagna radicale. Pannella invece sottolineava il tema della malagiustizia, puntava sulla colpevolezza dei giudici.

Quando il castello accusatorio crolla, ci furono autocritiche?
Per quel processo non si è mai scusato nessuno. Non ci fu nessuna autocritica. Anzi, i pm vennero promossi a ruoli di primo piano: uno al Csm, l’altro alla direzione nazionale antimafia. Nemmeno i giornali chiesero scusa? Vittorio Feltri, che allora era inviato del Corriere della Sera, in appello sostenne l’innocenza di Tortora. Ma nessun giornale scrisse: “Scusate, ci siamo sbagliati”.

Nemmeno a sinistra?
Men che meno. I giornali di sinistra erano i più accanitamente colpevolisti. Però c’è un fatto curioso.

Quale?
A Paese Sera c’era una caporedattrice decisamente colpevolista: Quando lei non poteva seguire le udienze, mandavano un ragazzotto senza contratto. Notai i suoi pezzi perché erano sempre precisi, non concedevano nulla al colpevolismo d’accatto. E sa chi era?

No.
Beppe D’Avanzo.

Ma dai.
Giuro. Aveva il coraggio di litigare con la sua caporedattrice. Non era per niente conformista. Uno dei pochi.

 

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