Intervista al giornalista arabo Khaled Abu Toameh «Altro che pace, vuole riavere i detenuti palestinesi»

Khaled Abu Toameh è un giornalista puro. Nato a Tulkarem nel 1963, musulmano, vive a Gerusalemme. Da trent’anni ha scelto la verità più scomoda. Oggi scrive su giornali e siti arabi, israeliani, americani, il Wall Street Journal ospita le sue colonne, ma nel passato ha pagato cara la sua battaglia per la libertà di opinione dei giornalisti palestinesi. È «distinguished fellow» del Gatestone Institute di New York. Riceve una quantità di premi giornalistici e di minacce.
Khaled, perché Abu Mazen dopo gli ultimi nove mesi di trattative ha fatto un accordo con Hamas, che è un’organizzazione terrorista?
«Per ora si tratta soltanto di strette di mano, baci e abbracci. Ma Abu Mazen porterà Hamas a Ramallah, o Hamas lascerà entrare Fatah a Gaza? I due hanno visto scorrere molto sangue, Abu Mazen ha arrestato migliaia di membri di Hamas, Hamas vede Fatah come un nido di traditori».
Eppure Abu Mazen annuncia l’accordo in pompa magna e irrita, oltre a Israele, gli americani, cui tiene.
«Abu Mazen sta cercando di spremere il limone fino in fondo. Tutte le trattative, fino a oggi, hanno avuto l’unico scopo di ottenere concessioni senza concedere nulla. Noi riceviamo, loro danno. Ora Abu Mazen, come quando ha richiesto a 15 commissioni dell’Onu il riconoscimento, dice con la sua mossa "Tenetemi o farò cose terribili, datemi cosa voglio o il processo di pace è finito". Ha fatto la stessa cosa qualche giorno fa annunciando che avrebbe smantellato l’Autonomia, e promettendo le dimissioni».
Ma stavolta è andato oltre, associandosi a un’organizzazione jihadista, islamista, terrorista.
«Il mediatore Martin Indyk è già a Ramallah a supplicare Abu Mazen di ricredersi».
Come? E dopo tutte gli annunci può tornare indietro?
«Sì, in cambio di altre concessioni che richiede in queste ore, e che gli americani cercheranno di imporre a Netanyahu».
Ma ormai gli israeliani sono delusi, ripetono che il processo di pace non c’è più.
«Abu Mazen tornerà sempre sul medesimo punto: il rilascio di prigionieri. Magari ora esigerà Marwan Barghuty. I prigionieri sono il vero scopo delle sue trattative. Quando Netanyahu ha rifiutato di rilasciare gli ultimi 26 ha deciso le mosse più estreme. Sa che la popolazione vuole questo, e non il processo di pace».
Cioè, è più vicina a Hamas che a Abu Mazen?
«L’incitamento, il rifiuto a riconoscere uno Stato del popolo ebraico segnala che Hamas è più forte».
Perché dunque Abu Mazen vuole le elezioni fra 6 mesi?
«Prima ci sono altri problemi irresolubili. Per esempio, da anni gli Usa e l’Ue armano ed esercitano le sue forze di sicurezza che collaborano con quelle israeliane. E ora dovrebbero fondersi con quelle di Hamas! Figuriamoci».
C’è chi dice che una volta realizzata l’unità, Abu Mazen, rappresenterà tutti i palestinesi... Una garanzia.
«L’unità sarebbe bella. M a mancano i requisiti minimi per la legittimazione internazionale. Ovvero: Hamas resta un’organizzazione terrorista che vuole uccidere tutti gli ebrei».
Hamas qualche giorno fa ha detto che non vuole colloqui di pace.
«Di più, le tre condizioni del Quartetto, base del rapporto con Abu Mazen: riconoscimento di Israele, accettazione degli accordi, rinuncia alla violenza... beh, lei ce lo vede Hamas? L’unità non ci può essere».
Ma perché Abu Mazen non accetta la richiesta di Israele di riconoscerlo come Stato del Popolo ebraico?
«Perché ha paura: si attira l’odio dei profughi di terza e quarta generazione. Abu Mazen non rinuncia al «diritto al ritorno», e spera che gli arabi possano sopravvanzare gli ebrei in numero. La strategia di Abu Mazen è chiara: tutte le risoluzioni dell’ Onu, confini del ‘67, profughi, Gerusalemme. A rischio e pericolo di Israele, senza trattativa vera».
Tutto ciò con un tam tam di propaganda sugli ebrei come invasori, non abitanti originari di Gerusalemme.
«AbuMazen è un abilissimo propagandista. Ripeti dieci volte la medesima bugia, e tutti ci crederanno».
Quanti palestinesi ci sono che la pensano come lei?
«Molti sanno che Abu Mazen mente, ma non osano dirlo».
E lei? Chi le dà il coraggio?
«Io sono un giornalista. È il mio mestiere».
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