Int. a P. Isely - Il grido delle vittime nel cuore di San Pietro. "Quelle notti di violenza nella camerata"

Mai era accaduto che la protesta per gli abusi dei preti pedofili sui minori arrivasse fisicamente nel cuore del Vaticano. Ieri però è successo, quando prima di mezzogiorno, un piccolo gruppo di dirigenti della Snap (Survivors network of those abused by priests), l’associazione americana delle vittime agli abusi da parte dei preti, ha organizzato un raduno davanti al Colonnato di San Pietro.
Hanno distribuito copie dei dossier sul caso Murphy pubblicato ieri sul New York Times, e mostrato alcuni cartelli con le foto di Papa Ratzinger e del Segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone. «Benedetto XVl -si leggeva su uno dei poster quando era Capo della congregazione per la dottrina della fede ha ignorato le richieste provenienti di tre vescovi di rimuovere dal sacerdozio il molestatore seriale Lawrence Murphy». Venti minuti di pacifica dimostrazione, interrotti dal brusco arrivo della polizia che ha trattenuto i quattro, due uomini e due donne, per aver organizzato una conferenza stampa senza autorizzazione, sequestrato tutto il materiale e portato il gruppetto al vicino commissariato di Borgo Pio. Dopo il loro rilascio, Repubblica ha incontrato il fondatore della Snap, Peter Isely, nel suo albergo intorno a piazza Risorgimento. Isley, piscoterapeuta degli ex bambini sordi abusati, indossa un gessato scuro e porta all’occhiello il distintivo tondo dell’associazione, con cinque piccoli che si danno la mano.
Mr. Isely, che cosa avete voluto dimostrare con la vostra azione a piazza San Pietro?
«Volevamo ricordare a tutti il ruolo che Benedetto XVI ebbe in qualità di Prefetto della Congregazione perla dottrina della fede nella copertura degli abusi compiuti da Murphy».
Quale ruolo?
«Ratzinger fu il primo a ricevere le lettere di denuncia. Ma non rispose mai».
Si, ma non fu Bertone, cioè il suo vice, a replicare con due lettere?
«E’ vero. Però Ratzinger non poteva non sapere di questo fatto scottante. Era lui il numero uno della Congregazione, e non è pensabile che l’archiviazione del caso richiesta da Bertone non avesse ricevuto
la sua approvazione diretta».
Voi come avete saputo del caso?
«Io ho fondato l’Associazione vent’anni fa, dopo essere venuto a conoscenza di queste situazioni di violenza».
Lei subì abusi?
«Io sono originario di Milwaukee, e a 13 anni fui vittima di un prete pedofilo, non padre Murphy, quando studiavo in seminario. Lo stesso la mia collega Barbara Blaine, stuprata nel 1969 da un sacerdote di Toledo, Ohio».
Poi che cosa accadde?
«Tre arcivescovi del Wisconsin vennero a sapere che Murphy abusava sessualmente dei piccoli ma, come risulta dai documenti, non si rivolsero mai alla magistratura o alle autorità. Nel 1974 Murphy fu infine trasferito in una diocesi a nord, dove trascorse gli ultimi 24 anni della sua vita continuando a lavorare con i bambini, in parrocchie, scuole e addirittura in un centro di detenzione per minori. Morì nel 1998, ancora sacerdote...».
Oggi è saltato il coperchio e molti cominciano a parlare. La Chiesa però dice che non ci fu nessun insabbiamento.
«La Chiesa sta cercando di riscrivere la storia dicendo "noi non sapevamo". Ma i documenti pubblicati dimostrano il contrario: Ratzinger sapeva ed è rimasto in silenzio. La Chiesa non deve fare la sua inchiesta, ma deve mettere le denunce nelle mani della polizia».
Che cosa faceva esattamente Murphy?
«Le dico solo questo: a parte entrare la notte nelle camere dei ragazzi, usava poi il confessionale per farsi raccontare i peccati dai singoli. Cioè adoperava uno dei sacramenti per incrociare le informazioni che otteneva da tutti e quindi gestirle».
Le vittime che cosa chiedono oggi al Vaticano?
«Che il Papa finalmente parli di questo caso. Che obblighi i vescovi a denunciare i pedofili alla polizia rimuovendoli dal sacerdozio. E che dia disposizione di rendere pubbliche le carte su questi crimini tenute segrete nell’ex Sant’Uffizio».
Avete contatti in Italia?
«Vorremmo aprire una sezione italiana, così come fatto abbiamo fatto in Germania. Ma qui le vittime hanno ancora paura di parlare».
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