Int. a P. Bersani - Bersani si 'modera': «Non critico la Bce»

Lo scontro a brutto muso c'è solo con Arturo Parisi che, forte del successo di firme del 'suo' referendum, alla direzione Pd fa scivolare una mezza richiesta di dimissioni del segretario. La replica è durissima. Ma stavolta sono in tanti a non apprezzare il leader. Alcuni sono suoi storici sostenitori. E così Bersani dice molti sì: ai centristi sulle alleanze, a Enrico Letta sulla Bce: «Nessuna critica alla Bce. Ha fatto una doppia supplenza al governo europeo che non c'è e a quello governo italiano paralizzato e inconcludente».
Poi, per fortuna, e soprattutto per non asfaltare del lutto i suoi - a partire da Stefano Fassina, responsabile economico del partito, per il quale «la ricetta della Bce è irresponsabile e irrealistica» - il segretario aggiunge: «Ma vogliano discutere sulle ricette su come si arriva al pareggio di bilancio. Noi i 20milioni di tagli non li faremmo all'assistenza». È un Bersani che si difende al centro, quello della direzione di lei. Della sua linea mantiene solo la preferenza per il voto anticipato anziché per un governo di transizione. Ma è in netta minoranza, in compagnia d Ignazio Marino. E di Nicola Latorre, che all'uscita sottolinea persino di Tarlare per sé: «D'Alema la pensa molto diversamente da me». Le altre anime del partito, veltroniani in testa (ma anche Marini e Franceschini stavolta 1, pensano come l'ex segretario) chiedono una scelta netta «per un esecutivo responsabile». Finisce in un «mi anche»: «Prepariamo il voto, ma siamo pronti a sostenere un governo di transizione», è la sintesi finale del segretario. Alla fine della riunione non ha caso stavolta non si vota la relazione.
Parisi chiede le dimissioni
Sul referendum elettorale pro Matarellum, la linea della segreteria «è rimasta abbarbicata ad un progetti, e ad un metodo di tipo bulgaro», dice il professore prodiano. E la relazione che consegna alla presidenza ha un sottotitolo eloquente: «In un partito serio il segretario dovrebbe dimettersi». Per aver infetto, spiega, «un grave danno al partito proponendo una linea che si è dimostrata radicalmente sbagliata». Parisi accusa Bersani di essere saltato sul carro referendario solo a fine raccolta di firme. La risposta di Bersani è tagliente: «L grave che alcuni dirigenti azzoppino il partito, anziché valorizzarne i meriti». Poi Parisi smentisce la richiesta di dimissioni («Parole fraintese»). Ma sul referendum anche Franceschini ha rivendicato la sua posizione favorevole sin dall'inizio: «Così ora avremmo potuto cogliere pienamente il successo».
Voto subito ma anche no
Ma è sul governo di transizione che il segretario si ritrova per la prima volta isolato. Per Walter Veltroni «l'orizzonte nel quale si muove il Pd non è quello delle elezioni bensì quello dei superamento del governo Berlusconi con un governo davvero responsabile». Per i Modem non si può tornare al voto «con questa legge elettorale negativa e contro la quale milioni di italiani hanno firmato». Per Franco Marini, «ci vuole un governo che duri un anno e che vari la patrimoniale». Per Franceschini «non è questo il momento di sbandare» verso il voto anticipato. «Lavorare nell'ombra», parole di Giuseppe Fioroni, per le elezioni produce il ricompattamento della maggioranza del governo. Insistere su un governo di larghe intese favorisce invece lo sganciamento di settori del Pdl. Insomma, la maggioranza del gruppo dirigente Pd è contro il voto anticipato. L'unico, va detto, che garantirebbe la premiership a Bersani. E al Pd il consenso che ha faticosamente guadagnato. Un consenso che un governo di responsabilità, costretto a scelte impopolari senza aver ricevuto l'investitura del voto, rischierebbe di dilapidare rapidamente.
Alleanze, frenata all'Ulivo
Ma se la minoranza Pd è sospettata di chiedere il governo di transizione per «azzoppare» la candidatura a premier di Bersani (il costituzionalista Ceccanti ha chiesto esplicitamente il ritorno ai gazebo prima del passaggio elettorale, anche se poi Veltroni ha preso le distanze dalla proposta), sul tema delle alleanze la polemica con Bersani è più esplicita. «Il Nuovo Ulivo prende in base ai sondaggi un 6-7 per cento in più ma il 40 per non si esprime. Noi dobbiamo interfacciarci con questo 40 percento. Se no, non si vince. Non si fanno le alleanze in due fasi. Per fare un'alleanza vasta bisogna procedere insieme altrimenti si creano i presupposti per riportare il,Terzo Polo nel centrodestra», dice Fioroni. Stavolta anche Marini è d'accordo: «Non ci vuole un genio della politica per capire che bisogna fare l'alleanza con i centristi. C'è qualcuno che fa lo schizzinoso? Vuol dire che c'è qualcuno che non capisce di politica». Marini pensa a una coalizione con l'Udc, che però allo stato delle cose si porta appresso anche i finiani. Un dettaglio su cui i fan delle alleanze al centro tendono a sorvolare.
Ma se la minoranza Pd è sospettata di chiedere il governo di transizione per «azzoppare» la candidatura a premier di Bersani (il costituzionalista Ceccanti ha chiesto esplicitamente il ritorno ai gazebo prima del passaggio elettorale, anche se poi Veltroni ha preso le distanze dalla proposta), sul tema delle alleanze la polemica con Bersani è più esplicita. «Il Nuovo Ulivo prende in base ai sondaggi un 6-7 per cento in più ma il 40 per non si esprime. Noi dobbiamo interfacciarci con questo 40 percento. Se no, non si vince. Non si fanno le alleanze in due fasi. Per fare un'alleanza vasta bisogna procedere insieme altrimenti si creano i presupposti per riportare il,Terzo Polo nel centrodestra», dice Fioroni. Stavolta anche Marini è d'accordo: «Non ci vuole un genio della politica per capire che bisogna fare l'alleanza con i centristi. C'è qualcuno che fa lo schizzinoso? Vuol dire che c'è qualcuno che non capisce di politica». Marini pensa a una coalizione con l'Udc, che però allo stato delle cose si porta appresso anche i finiani. Un dettaglio su cui i fan delle alleanze al centro tendono a sorvolare.
Sintesi finale di Bersani: «La nostra proposta è una sola: incontro tra forze progressiste e moderate. Certo non è facile. Ma teniamola aperta, poi tutti insieme decideremo». Il primo effetto è che salta la road map concordata a Vasto con Di Pietro e Vendola. La tre-giorni per il programma del Nuovo Ulivo slitta: «Stiamo lavorando a una prima sgrossatura del programma, che parte dall'accordo del 28 giugno e dal risanamento. Le differenze ci sono, vedremo se sono superabili». Al suo posto, entro dicembre spunta fuori una «convention per la ricostruzione» del Paese. Ma è un appuntamento di partito.
Radicali e Roma, non si decide
E ce n'è anche di non affrontati, fra i tanti nodi che erano all'ordine del giorno. Quello dei radicali, che doveva essere affrontato in questa direzione, dopo il rimpallo fra gruppi parlamentari e le sedi di partito. «Con loro è bene che ci sia un rapporto sui temi, ma serve una separazione consensuale nei gruppi», dice il franceschiniano Antonello Giacomelli. Ma che sia tema non in cima alle preoccupazioni del segretario, oppure tema da lasciar decantare, fatto sta che non se ne parla. Quanto alla riforma delle primarie, annunciata per l'autunno, slitta a gennaio. Gazebo congelati e avanti commissari nel Lazio e in Calabria.
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