Int. a Macaluso - «Ci manca uno Sciascia, anche se sulla Sicilia litigheremmo ancora»

Tra «appropriazioni indebite» di una certa destra e il vortice della mistificazione a sinistra, a vent'anni dalla sua scomparsa Leonardo Sciascia continua a far discutere. A fare luce sugli equivoci ci ha pensato Emanuele Macaluso, storico esponente del Pci, ex direttore dell'Unità ma soprattutto sodale dello scrittore di Recalmuto, che con Sciascia e i comunisti adesso edito dalla Feltrinelli (pp.158, €14,00) e da pochi giorni in libreria ha riannodato alcuni punti fondamentali del "garantismo" sciasciano. Mancava un'analisi dello Sciascia politico, non solo della sua breve esperienza parlamentare alla Camera con i radicali nel periodo 1979 - '83, ma dell'aspetto propriamente e politicamente incisivo della sua opera, in rapporto alla sinistra italiana e in particolare al Pci, un rapporto tormentato concluso con una clamorosa rottura. Di questo abbiamo parlato proprio con Macaluso. E l'incontro è stato occasione per discutere di Sicilia (di allora e di oggi) ma anche di quanto manchi al dibattito politico sulla giustizia e sulla legalità una figura come quella di Leonardo Sciascia. Che sulle leggi "ad personam" di Berlusconi avrebbe avuto molto da dire...
Macaluso, in quella Sicilia del dopoguerra - con una Dc che rappresentava un monolite - come poteva un giovane educato alla scuola illuminista come Sciascia non simpatizzare per quel Pci?
Quello che portò sia Leonardo Sciascia, il quale non aderì mai ufficialmente, sia me al Pci fu soprattutto questo: che in Sicilia c'erano da un canto una questione sociale enorme con i zolfatari e ì contadini che vivevano in una condizione terribile, dall'altro proprio per questo in questa terra c'era una grande aspirazione alla libertà. Poi tutto cambia dopo la fine della guerra: adesso ci sono i partiti, c'è la Dc soprattutto, c'è l'impegno della chiesa, c'è la mafia che sta diventando protagonista. E Sciascia dal suo canto inizia una forte critica nei confronti del Pci: che diventava un grande partito, anche nei compromessi che lui non tollerava, anche se la sua critica più dura sarà in rapporto alla giunta Milazzo accusata di essere paramafiosa.
Certo, in quel contesto, a garantire un certo profilo e nonostante una posizione minoritaria, come ricorda anche o stesso Andrea Camilleri c'erano anche i dirigenti del Msi...
Il Msi in Sicilia aveva uomini e politici di qualità, nel senso che c'era un personale legato a certe forme di ordine e di legalità che provenivano direttamente dall'esperienza fascista. Ed erano persone perbene, galantuomini di paese e di provincia come Seminara e Buttafuoco, intellettuali alcuni dei quali molto preparati. E furono persone le quali a un certo punto parteciparono all'operazione Milazzo per mettere fuori la Dc proprio mentre io dirigevo il Pci in Sicilia.
L'opera di Sciascia risente molto di questo rapporto con la politica: dal romanzo "Il giorno alla civetta" a "Contesto" succede però qualcosa: perché a un certo punto il Pci «non era più solo il partito della gente che si faceva ammazzare»?
"Il giorno della civetta" lo scrive traendo l'ispirazione dall'uccisione di Accursio Miraglia, il segretario della Camera del lavoro di Sciacca: è in questa fase che Leonardo Sciascia guarda al Pci come il partito della redenzione contro l'ingiustizia. Certo, ben presto inizia anche la sua critica su come si stava organizzando il partito. Ed è "Contesto" il libro che provocò la polemica vera tra Sciascia e il Pci. Lì dentro c'era una metafora in particolare ed era quella che individuava il compromesso storico in anticipo. È quello il momento in cui inizia la sua critica diretta e la reazione nostra fu quella di stoppare il tentativo. Ma Sciascia intravide quello che poi accadde davvero...
Nonostante tutto questo, però, si candidò nel 1975 nelle liste del Pci. Perché?
Faceva parte del personaggio. Lui si candida per il consiglio comunale di Palermo ma in un famoso discorso dirà che farà la campagna contro il compromesso storico. Perché? Credeva in quella nuova classe dirigente, con in testa Achille Occhetto, che sembrava intransigente verso quella deriva. E come se era possibile che la politica che aveva inaugurato Berlinguer potesse essere messa in discussione, si potesse fermare a Reggio Calabria! Invece nello stesso anno il Partito comunista con Occhetto fece l'accordo con la Dc. Ma ci fu ancora di peggio...
Si riferisce alla fine del rapporto con Renato Guttuso sul caso Moro, quando Sciascia sentenziò che «il partito vale più della verità»?
L'asse portante di tutta la riflessione di Sciascia è un concetto: giustizia è verità. E il comportamento di Guttuso e il fatto che questo antepose il partito alla verità fu per lui un trauma e una rottura radicale.
Comprese lì che con Marco Pannella e i radicali poteva esprimersi meglio?
Con loro si trovò benissimo. Perché la sua locazione, politica, letteraria fu quella di contrastare il potere comunque e dovunque, contro la mafia come contro certa antimafia, contro il fascismo ma anche contro l'antifascismo se diventa a sua volta potere. E allora con i radicali e in definitiva con tutta la filosofia pannelliana che era contro il potere, la partitocrazia, il "regime" si trovò a casa.
Passiamo ai giorni nostri. Dopo "il caso Milazzo" pensa che litighereste anche sul governo di Raffaele Lombardo che vede inedite "convergenze"?
A occhio e croce debbo dire di sì. Certo adesso il quadro è totalmente mutato, non c'è più la Dc e nemmeno il Pci. Ma si sa che cosa pensava Sciascia contro il trasformismo e su questo avrebbe fatto di sicuro qualche appunto. Però io penso che forse stavolta si è fatta una giunta con persone di qualità, anche se altri personaggi mi fanno sospettare che non sarà così facile riformare la Regione: perché, come diceva anche Sciascia, o si riforma oppure serve solo ai clienti della spesa pubblica...
Lei ha parlato di sottrazione indebita del garantismo di Sciascia da parte di esponenti berlusconiani. Perché dalle parti del Cavaliere cercano di appropriarsi di Sciascia?
Ha bisogno di un riferimento intellettuale. Il problema è che contrabbanda con il garantismo le coperture date a misure che con questa non c'entrano nulla. La guerriglia che viene fatta contro tutti i magistrati, ad esempio, è una delegittimazione inaccettabile. Non so che cosa avrebbe detto Sciascia, perché una cosa del genere contraddice radicalmente il suo pensiero. Insomma, questa destra che dice lei fa un garantismo penoso. E se c'è una cosa che Sciascia non accettò mai furono le leggi "ad personam": se lui si ribellò perfino a una nomina per ragioni di regolamento a un personaggio meraviglioso come Paolo Borsellino, come potrebbe accettare oggi determinate leggi che servono solo a qualcuno. Dall'altra il nodo giustizia ancora oggi ammorba una sinistra succube di un giustizialismo... La sinistra di ieri non è stata in grado di assumere la lezione di Sciascia sulla lotta alla mafia che, sulla base di un grande rigore sulla linea delle leggi, spiegava come violando regolamenti non era possibile lottare contro la criminalità. Oggi, poi, un partito come il Pd che si allea con Di Pietro vuol dire che subordina una linea politica fondamentale al populismo delle "manette": per cui non c'è coerenza e su questi temi la coerenza, che riguarda la concezione dello Stato e delle libertà, è fondamentale.
Quanto manca al paese uno stimolo eretico come quello di Sciascia?
Molto. Oggi non vedo tanti intellettuali che riescono a interpretare questo ruolo. Ma soprattutto manca la combattività "illuminista" di Sciascia. Che non si piegò di fronte alle critiche aspre di Scalfari, di Pansa e di altri grandi, perché aveva un'idea forte. Pensava che la mafia si combatte con le leggi, non violando le leggi. E su questo ha speso tutta la sua vita.
© 2010 Il Secolo d'Italia. Tutti i diritti riservati
SEGUICI
SU
FACEBOOK
SU