Int. a M. Murgia - Murgia precaria e teologa in cima al Supercampiello

Dopo il Mondello 2010, con il romanzo Accabadora (Einaudi) Michela Murgia si è aggiudicata anche il Supercampiello. La scrittrice sarda, classe 1972, nativa di Cabras (dove vive), ha accolto con emozione la notizia del prestigioso riconoscimento. Il termine «accabadora» indica in sardo una donna che «aiuta a morire», una sorta di eutanasista ante litteram, che nel libro compare con il nome di Bonaria in una storia ambientata nella Sardegna rurale degli anni'50.
Abbiamo incontrato la scrittrice sabato notte, al termine della cerimonia di premiazione che si è svolta alla Fenice di Venezia. Nel corso della quale ha duettato con il conduttore Bruno Vespa, che l'ha sollecitata sul tema del precariato. La Murgia ha infatti esordito nel 2006 con Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria (Isbn Edizioni), da cui è stato tratto il film di Virzì Tutta la vita davanti.
«Guardi che anche lei è precario! », ha detto a Vespa. E il giornalista: «Certo, in Rai siamo tutti precari». Ma la scrittrice ha continuato: «Il mio precariato è, in realtà, un privilegio, perché, seppure da precaria, ho sempre avuto la possibilità di scegliere in quale città abitare e quale lavoro svolgere. Il vero dramma del precariato è quello di coloro che non hanno la possibilità di scegliere, essendo vincolati a una situazione che non amano». Non paga, ieri la scrittrice ha rincarato la dose: «Vespa non mi è piaciuto per niente, l'ho trovato di cattivo gusto». Si riferiva agli apprezzamenti fatti dal giornalista alla vincitrice del Campiello Opera Prima, Silvia Avallone.
Apprezzamenti sul suo decolleté: «Se l'avesse fatto a me, avrebbe avuto la risposta che si meritava». A chi, infine, le ha chiesto se intendesse dedicare la sua vittoria alla Sardegna, Michela ha risposto di preferire dedicarla a Sakineh, la donna iraniana condannata a morte per adulterio.
Michela Murgia, molti si sono chiesti se la realtà descritta nel suo romanzo corrisponda o meno a una effettiva presenza storicamente documentata...
«Si tratta di qualcosa di cui si parla, a livello di tradizioni popolari, ma di cui non abbiamo la prova storica. Tuttavia il fatto che esista questo nome a indicare una funzione socialmente riconosciuta, per me, come narratrice, è stata la cosa essenziale. Perché se c'è quel nome, ci può essere una storia da raccontare».
Qual è la sua posizione personale sul tema dell'eutanasia?
«Non era mai intenzione scrivere un romanzo a tesi, come è sembrato a qualcuno, magari per sostenere l'opportunità di una legge sull'eutanasia. Su questo argomento così complesso non ho certezze. In sardo il termine 'giustizia' ha una connotazione negativa: una persecuzione del potere costituito ai danni del singolo, indipendentemente di ciò che uno ha fatto. Il concetto positivo è quello che chiamiamo 'su giustu', cioè ciò che è giusto fare in una determinata circostanza. Questo per dire che la coscienza non si può esprimere a prescindere dalla situazione concreta. Personalmente di fronte al caso Welby avrei dato una risposta, davanti al caso Englaro, invece, un'altra. Non sono d'accordo con la Chiesa cattolica, perché dà regole generali e troppo rigide, ma non sono neanche d'accordo con chi afferma il diritto di scegliere la propria morte».
Dopo il diploma tecnico, lei ha conseguito una laurea in teologia e per alcuni anni ha insegnato religione nelle scuole. Qual è oggi il suo rapporto con il cattolicesimo?
«È stato proprio lo studio della teologia a educarmi a una cultura della domanda. Mentre oggi siamo circondati da persone che hanno il culto della risposta. La fede è un aspetto importante della mia vita, non il dogmatismo».
Al di là delle questioni etiche implicate nel suo libro, si intuisce dietro al suo romanzo l'importanza di un lavoro di ricerca letteraria che sta a monte della stesura.
«Ho lavorato per tre anni a questo libro, prima di consegnarlo all'editore. Fortunatamente negli ultimi tempi ho avuto la possibilità economica di dedicarmi a tempo pieno alla scrittura. Ciò mi ha consentito di sviluppare la storia e le idee ad essa sottese in uno stile che ho cercato di costruire in maniera molto attenta, coinvolgendo nell'italiano di fondo termini del dialetto sardo. Per dare al testo la sonorità dei luoghi in cui è ambientato».
Nelle scorse settimane ha tenuto banco sui giornali un'accesa polemica sulla casa editrice Mondadori, sollevata dal teologo Vito Mancuso, che aveva evidenziato il proprio disagio a pubblicare con la casa editrice di proprietà di Silvio Berlusconi, accusata tra l'altro di evadere il fisco. Einaudi, che ha pubblicato il suo ultimo libro, è nel gruppo Mondadori. Qual è la sua posizione in merito?
«Non c'è una visione del mondo e della realtà più lontana dalla mia rispetto a quella berlusconiana. Il berlusconismo è un'ideologia che mi è assolutamente estranea. Ma rivendico il diritto a pubblicare i miei libri con Einaudi, il cui catalogo di indiscusso prestigio è per me garanzia di serietà. Il bel gesto che viene chiesto a noi scrittori non può coprire le inadempienze di un'opposizione a dir poco dormiente. Ai politici spetta il compito di contrastare Berlusconi in maniera diretta. Agli scrittori tocca invece immaginare mondi alternativi a questo, favorendo, su un piano più profondo, un cambiamento di mentalità nella gente».
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