Int. a F. Andreatta - Il segretario ascolti Prodi, serve una nuova classe dirigente non cooptata

«Mi ha sorpreso la reazione fredda, talvolta persino stizzita, del gruppo dirigente nazionale del Pd alla proposta di Romano Prodi. Dare al partito una struttura federale vuol dire affrontare concretamente il nodo cruciale del radicamento. Si può discutere delle formule organizzative, ma non sfuggire al problema. Che a sua volta ne richiama un altro: come selezionare e promuovere un ricambio politico fuori dai quei meccanismi di cooptazione che da 15 anni ingessano le classi dirigenti del centrosinistra».
Filippo Andreatta, quarantenne professore di Relazioni internazionali all’università di Bologna, ulivista della prima ora, si schiera invece decisamente con Prodi. «Ho avuto l’impressione che la sua proposta di partito federale sia stata letta a Roma come un tentativo di rimettere in gioco la leadership».
Non conteneva anche questo la provocazione di Prodi?
«Non posso parlare per lui. Ma l’ultima cosa di cui c’è bisogno oggi è cambiare il leader del Pd. Al contrario il Pd ha bisogno di una stagione di normalità, di due o tre anni per lavorare fuori da quell’emergenza, che è stata ragione e forse alibi per conservare gli stati maggiori che hanno traghettato Ds e Margherita verso il Pd. Sia chiaro, hanno compiuto un’impresa di grande valore. Ma i dati elettorali mostrano ora una disaffezione, a cui è necessario dare risposta per ravvivare il progetto».
E’ sicuro che i dati delle regionali dicono tutto questo?
«Non parlo solo delle regionali. Nel 2006 l’Unione prese 19 milioni di voti, nel 2008 il Pd e Di Pietro si fermarono a 14: cinque milioni di voti in meno. La linea della vocazione maggioritaria portò allora il Pd a cannibalizzare i partiti minori, ma poi il ritorno alle alleanze ha redistribuito anche parte di quei voti. Ora alle regionali Pd e Pdl hanno ottenuto 6 milioni di voti ciascuno, 7 milioni se si considerano le liste dei presidenti: in tutto 14 milioni su 40 di aventi diritto. Sono segni di disaffezione che possono sconvolgere il campo stesso della rappresentanza politica!».
Davvero lei pensa che la struttura federale bastia delineare una ripartenza del Pd?
«Credo che siamo arrivati al punto in cui, senza una grande operazione di radicamento del partito nuovo, il progetto possa deperire fino a rendere il Pd non più competitivo per il governo. Al congresso mi sembrava che questa priorità fosse ben chiara a Bersani. Siccome Berlusconi è più bravo nell’uso dei inedia, il Pd deve essere più forte nella presenza territoriale. La fusione fredda tra Ds e Margherita rischia di non bastare: o il Pd si radica andando al di là dei vecchi confini o si richiude in se stesso. Non è solo, ma è anche una questione di rinnovamento della classe dirigente. Che, solo con una regola davvero federale, può affermarsi fuori dalle logiche di cooptazione».
Che ne pensa del partito del Nord?
«Non mi pare auspicabile. Ma se la risposta del Pd non sarà adeguata ad una nuova presenza e rappresentanza dei territori, penso che un nuova espressione politica nelle Regioni più forti del Paese nascerà da sola, senza autorizzazioni. La domanda, in tutta evidenza, già c’è».
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