Int. a C. Scajola - Scajola: "Per me non esiste nessun piano B"

Dalla Rassegna stampa

Ministro Scajola, l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne subito dopo l’incontro con lei ha detto: «II nostro piano prevede venti miliardi di investimenti, i sindacati si accontentino». La pensa allo stesso modo?
«Il Governo aveva chiesto di aumentare la produzione di auto in Italia e Marchionne si era impegnato a portare entro due anni la produzione, da 650 mila a 900 mila vetture l’anno. Nel piano si va molto oltre, l’obiettivo entro il 2014 è 1,4 milioni. Naturalmente la centralità della produzione in Italia non è una garanzia incondizionata. E’ una sfida che ha bisogno di tutti: dell’azienda che scommette soldi, del Governo che deve sostenere lo sforzo cercando di aumentare la competitività del Paese, dei sindacati che debbono garantire l’efficienza degli stabilimenti».

Vi soddisfano le prospettive occupazionali?
«Se cresce la produzione, al netto del recupero di efficienza, crescerà anche l’occupazione. Sono lieto che le indiscrezioni su presunti cinquemila esuberi non abbiano trovato conferma. Fiat ha acquisito lo stabilimento torinese di Bertone e i suoi mille occupati. Sono previsti un migliaio di pensionamenti incentivati e la prospettiva di nuove assunzioni se il mercato riprenderà. Resta il problema Termini Imerese, ma confermo che avrà un futuro industriale nell’auto».

Con l’eccezione di Termini, Fiat prevede di mantenere tutti gli stabilimenti italiani a patto di avere il sostegno dei sindacati. Teme una prospettiva diversa e l’avvio del «Piano B», ovvero la chiusura di qualche altro stabilimento?
«Per me il piano B non esiste».

Allora cosa deve accettare il sindacato perché il piano A abbia successo?
«C’è bisogno dell’accordo per le ristrutturazioni e in particolare di Pomigliano D’Arco, perché lì Fiat ha deciso di investire 700 milioni, lì verrà spostata la produzione della Panda attualmente in Polonia ed è destinato a diventare il secondo sito dopo Melfi. Perché tutto ciò avvenga occorre il sì dei sindacati a nuove regole di efficienza e flessibilità del lavoro. Regole sulle quali, per inciso, ci sono ancora riserve della Fiom. Spero si superino rapidamente».

E se quelle riserve rimanessero tali? Il governo medierà?
«Siamo d’accordo con Marchionne perché i tavoli già aperti sui singoli stabilimenti si allarghino al nuovo piano».

Quando il governo ha detto no al rinnovo degli incentivi lei ha ipotizzato un sostegno a ricerca e innovazione di prodotto. A che punto siamo?
«Il Governo non ha mai fatto mancare il sostegno a programmi seri d’investimento. Ci sono contratti di programma in corso che accompagneranno le ristrutturazioni e iniziative per la ricerca che potranno essere potenziate».

Cosa ha pensato quando Marchionne ha espresso «disgusto» per come funzionano le relazioni sindacali in Italia?
«Marchionne è un italo-canadese che prima dell’incarico in Fiat aveva lavorato solo all’estero. Non mi sorprende che non sia abituato e possa manifestare insofferenza verso le liturgie, una rappresentanza sindacale frantumata in molte componenti, a volte un po’ ideologica, meno pragmatica del sindacato americano azionista della Chrysler. Però è anche grazie ai nostri sindacati se il Paese è riuscito a mantenere nella crisi la coesione sociale».

Avete timori per la separazione societaria fra auto e altre attività? Temete che prima o poi la famiglia ceda il controllo dell’auto? Per il governo sarebbe un problema?
«La separazione societaria, di cui si parla da anni, è uno strumento per valorizzare al meglio i diversi settori produttivi del gruppo e per facilitare alleanze nei singoli business, a partire dall’evoluzione dell’intesa con Chrysler. La separazione non prevede modifiche dell’assetto azionario».

Crede che se il Governo avesse concesso più aiuti all’auto come accaduto negli Stati Uniti o in Francia lo scenario sarebbe diverso da quello di oggi?
«Senza l’intervento dello Stato tutte le case americane sarebbero fallite. La Francia ha concesso aiuti diretti, a mio avviso in contrasto con le regole europee e contribuendo a far salire il deficit pubblico oltre il 9%. Noi eravamo in una situazione diversa, sia perché Fiat era ed è in condizioni migliori, sia perché non potevamo aumentare oltre il deficit. Di più non si poteva fare».

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