Ho perdonato il mio carnefice

Gli archivi della giurisdizione Gacaca sono un patrimonio prezioso dell'umanità da preservare e tramandare, tanto sono zeppi di storie che raccontano di un immenso dolore, ma anche di una ritrovata unità, fiducia e riconciliazione tra Hutu e Tutsi. Come la storia che all'apertura della cerimonia di Kigali hanno raccontato Alice Mukarurinda ed Emmanuel Ndayisaba, una superstite del genocidio del '94 e il suo aggressore.
I ricordi di un inferno
Diciotto anni dopo, i ricordi di Alice sono ancora freschi. L'11 aprile, i soldati Hutu e gli uomini della milizia Interahamwe (quelli che lottano insieme), addestrati a combattere con machete e pistole, hanno attaccato la città di Nyamata e appiccato il fuoco alla grande chiesa dove si erano rifugiati i Tutsi. Alice era riuscita a fuggire prima insieme al marito e alla figlia Fanny di nove mesi, mentre la madre e due sorelle sono arse vive insieme ad altre 5 mila persone. Prima si sono nascosti nei campi intorno al fiume Kagera tra piante di fagioli e alberi di banane e quando gli Hutu hanno incendiato i campi hanno vagato tra le paludi nascondendosi tra le canne. Il marito è scappato da una parte e lei dall'altra. Gli Interahamwe l'hanno scoperta il 29 aprile, le hanno strappato la bambina dalle braccia e l'hanno tagliata in due con un colpo secco di machete. Poi si sono accaniti su di lei. Le hanno mozzato una mano, conficcato una lancia nella spalla e l'hanno colpita in testa con una mazza costellata di chiodi: «Se ne sono andati quando pensavano che fossi morta», racconta oggi Alice. Dopo cinque giorni passati tra la vita e la morte, si è svegliata nella palude circondata da cadaveri mangiati dai cani, Il marito l'ha trovata lì. Lo avevano gettato in un pozzo, ma si era salvato. «Dov'è la mia bambina?», è la prima cosa che ha chiesto l'uomo. «Dobbiamo andare a seppellirla», ha risposto lei. Ma i massacri erano ancora in corso e non c'era un posto per dare sepoltura alla piccola, così l'hanno solo coperta. Dopo tanti anni, il cruccio di Alice è di non aver avuto il coraggio di tornare alla palude e di aver abbandonato il corpo di sua figlia.
Lui era un corista
Prima del genocidio, Emmanuel Ndayisaba era un operaio metallurgico e cantava nel coro di una chiesa avventista. È stato reclutato dai soldati Hutu ed è andato con loro in una casa dove si nascondevano i Tutsi. L'hanno circondata ed Emmanuel ci è entrato armato di machete. C'erano 14 persone rannicchiate sul pavimento e le ha uccise tutte, compresa una donna con il suo bambino in braccio. Ha anche ucciso un uomo che conosceva bene: era il suo vicino di casa. «L'ho fatto perché volevo avere una mucca, non pensavo che ne avrei mai posseduta una in tutta la mia vita», ha spiegato Emmanuel, a riprova della banalità del male. Dopo averne uccisi 14, Emmanuel non aveva più paura e, il giorno dopo, è andato di nuovo insieme ai soldati a scovare i Tutsi di casa in casa. Ha trovato un uomo e l'ha ucciso. Il terzo giorno, in un altro posto, ha ucciso un'altra madre e il suo bambino. Il quarto giorno, è andato a caccia di Tutsi nelle paludi di Nyiragongo e lì ha visto per la prima volta Alice. Le ha tagliato una mano e sfregiato il viso. Alice è stata l'ultima persona che ha preso a colpi di machete, poi Emmanuel ha smesso di uccidere e tagliare. «Ero tormentato dalle grida e dai volti delle persone che avevo massacrato». Alcuni li aveva visti davanti al coro nella chiesa avventista. «Come ho fatto a uccidere le stesse persone per le quali cantavo?», si chiede oggi.
Il percorso del pentimento
Dopo che il Fronte Patriottico Ruandese ha posto fine al genocidio formando un nuovo governo, nel 1996 Emmanuel è andato davanti a un giudice e ha detto quello che aveva fatto. Lo hanno messo in prigione insieme al padre in una cella dove i detenuti erano stipati uno sull'altro come in un sacco di fagioli. Emmanuel è uscito sette anni dopo, grazie alla clemenza concessa a tutti quelli che avevano confessato. Il padre non aveva collaborato con i giudici ed è morto in carcere per malattia.
La seconda volta che Emmanuel ha visto Alice è stata nel 2003, quando ha aderito a un'associazione chiamata Ukuri Kuganze (La verità prima di tutto), composta da sopravvissuti e autori del genocidio. Insieme, hanno preso un pezzo di terra e l'hanno coltivata, hanno allevato il bestiame e costruito case per gli orfani del genocidio.
Alice non si ricordava più il suo viso. Emmanuel, invece, la faccia di Alice ce l'aveva ben impressa nella mente, ma non aveva idea di come avvicinarsi a lei. «Avevo paura», racconta l'uomo, «ogni volta che i nostri occhi si incontravano, volevo scappare». Un giorno, Emmanuel ha portato al campo birra di sorgo e patate dolci. Ha cotto le patate sulla griglia, ha preso quella più grande e l'ha data ad Alice. Si è fatto coraggio, l'ha chiamata in disparte e ha chiesto di parlare con lei. «Ho un grosso problema», continuava a ripetere, ma non riusciva a spiegarsi. Dapprima Alice ha pensato che fosse malato o in difficoltà e chiedesse aiuto. Finché un giorno si è messo in ginocchio e le ha chiesto perdono. «Per cosa ti devo perdonare?», gli chiedeva Alice, ma lui continuava a dire «ti prego perdonami, ti prego perdonami». Alla fine è scoppiato in lacrime e le ha rivelato: «Sono quello che ti ha tagliato la mano e la faccia», e le ha spiegato dove e quando. Alice è scappata via. Dopo aver girovagato a lungo, è tornata a casa e ha raccontato alla famiglia quello che era successo.
Sulle prime, Alice ha dovuto vedersela col marito. L'uomo la rimproverava, le diceva che era tutta colpa sua, per aver scelto di stare in una associazione con degli assassini. Ma poi è stato lui a ricordare ad Alice quel che aveva promesso a Dio. E cioè che avrebbe perdonato il suo aggressore se un giorno lo avesse incontrato. «Ora lo hai trovato... perché stai esitando?», le ha chiesto il marito. Per un mese Alice si è chiusa in se stessa, ha riflettuto e si è raccolta in preghiera. Poi, un giorno ha deciso. È tornata al lavoro, ha cercato Emmanuel e quando lo ha avuto davanti gli ha detto: «Io ti perdono... Se Dio vuole, ti perdonerà».
Quando Emmanuel è comparso davanti al tribunale Gacaca, Alice ha fatto di tutto per evitargli una pena pesante.
Alice ed Emmanuel ora sono grandi amici. Alla celebrazione di chiusura dei processi Gacaca non si sono mai separati. Sono arrivati insieme e si sono seduti una accanto all'altro, hanno condiviso il cibo e sono ripartiti insieme.
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