Il gusto (e la forza) della disobbedienza

Dalla Rassegna stampa

 

Non ha mai finito di dire quello che aveva da dire Resistance to Civil Government di Henry David Thoreau. Ebbe un destino strambo, come lo fu quello del suo autore: ignorato all'uscita, nel 1848, il saggio divenne noto con un titolo che lui probabilmente non conobbe mai, Civil Disobedience. Era l'America. Erano altri tempi: quelli caldi (e ingiusti) della guerra espansionista degli Stati Uniti al Messico e del dibattito sulla schiavitù. Thoreau era uno scrittore, poco più di quarant'anni, cui batteva in petto una profonda convinzione antischiavista: piuttosto che pagare la tassa imposta dall'autorità per finanziare la campagna del Messico, finì in carcere; quando nel 1850 la Fugitive Slave Law ordinò di segnalare, far catturare e restituire i prigionieri fuggiti dal Sud, lui li aiutò a correre più veloci e lontani. Credeva assurdo che la Corte di un tribunale potesse decidere sulla libertà di un uomo. Dissociandosi pose il problema del conflitto tra diritto e legge: il primo avrebbe dovuto predominare sulla seconda; ogni individuo, alla presenza di valori non disponibili ad alcuna maggioranza, doveva seguire i dettami della propria coscienza, e solo dopo, semmai, le imposizioni di un governo.
Insomma: questo signore, due secoli fa, la pensava sulla schiavitù come noi radicali la pensiamo sulla pena di morte. Lui fu, in qualche modo, tra i primi radicali, e io mi sento, in qualche modo, tra gli ultimi disobbedienti civili.
La prima volta che sentii parlare di disobbedienza civile era il settembre del 1974, dalla bocca di Adele Faccio, al Cisa, il Centro informazione sterilità aborto di Milano che avevamo creato per offrire alle donne, in tempi d'aborto proibito - ma diffusamente praticato - la possibilità d'interrompere una gravidanza in modo sicuro. Mi spiegò che noi stavamo «disobbedendo civilmente». Stavamo cioè violando pubblicamente il codice penale, che proibiva in Italia l'aborto.
Capii allora che la disobbedienza civile è qualcosa di molto diverso dalla trasgressione, anzi è la sua negazione: a tutti gli effetti è un'assunzione aperta di responsabilità individuale nel violare una legge in vigore, insieme con la dichiarata disponibilità a subire in prima persona le pene da questa previste, purché venga riconosciuto un problema, e si trovi una soluzione normativa altra, diversa, migliore. Ma ciò che ha imposto Thoreau nel XX secolo è la sconfessione della violenza. Se ne accorsero i suoi adepti più celebri, Martin Luther King e Gandhi: fu un antesignano della lotta non violenta tra governati e governanti. Per fortuna, lo seguono ancora, qualcuno lo fa forse anche senza saperlo.
C'è l'imprenditore di Pordenone, Giorgio Fidenato, che si mette in testa di non fare più il "sostituto d'imposta", di smettere cioè di esercitare per conto dello Stato il ruolo di esattore con i suoi dipendenti, e si auto-denuncia alle istituzioni. Ci sono le donne che contro la legge sulla procreazione assistita vanno a diventare madri in Spagna o in Svizzera: lo fanno pubblicamente, anche se non lo sbandierano, non si autodenunciano, non offrono i propri polsi. C'è soprattutto Marco Pannella che della disobbedienza civile e della nonviolenza offre oggi le elaborazioni più innovative e interessanti.
Ma c'è anche un grande riflusso: «È che siamo sempre più di legno, di paglia», come scriveva con lungimiranza Thoreau. Vale a dire, che troppi cittadini nel nostro Paese hanno perso la capacità d'indignarsi in modo costruttivo, vivendo nel torpore, deambulando, come anestetizzati. In un mugugno collettivo, facendo il funerale alla grandezza di essere cittadini e non un'audience di spettatori, che possono fare il tifo da una parte, o dall'altra, ma solo spettatori restano.

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