Il grido di rivolta delle carceri arriva ai Palazzi

Braccia dentro i maglioni e teste ricoperte da berretti di lana, tesi avanti fra le sbarre di ferro e ruggine del quarto raggio di San Vittore per salutare il cardinale Tettamanzi, il 23 dicembre, potevano esser simili a Manila, Bangkok, New Delhi. A quei visi e mani, allo striscione con scritto «Abbiamo sete di una giustizia autentica», il cardinale ha risposto che «la giustizia autentica è una virtù che deve essere coltivata da tutti e tutti riguarda». E poi: «So che è paradossale, ma è possibile coltivarla anche qui e la cosa più bella è che voi volete essere uomini di giustizia».
Fuori dall’emozione del contatto diretto, aveva aggiunto: «Le condizioni sono offensive della dignità umana. Il carcere non è un corpo estraneo alla vita sociale». Non lo è, però sta coperto e nascosto, salvo casi clamorosi di cronaca nera, dal pestaggio alla rivolta, dal fuoco al suicidio. Sono detenute quasi 66 mila persone (ogni giorno il numero cambia) in spazi previsti per 40 mila o poco più. In un anno si sono ammazzati settanta reclusi, le settimane dell’anno sono cinquantadue. Altri hanno tentato il suicidio, altri sono morti per mali che, probabilmente o forse, in ospedale non sarebbero stati trascurati o, al più, recuperati per tempo. Le agenzie li centellinavano mentre arrivava Natale.
Nella guerra dei numeri, del sovraffollamento, perde anche la fragilità di organici degli agenti penitenziari: ne mancano 5 mila, sostengono le forze sindacali, e per il prossimo triennio prevedono l’uscita di 2.500 persone da contrastare con l’assunzione di 1.800. Il Sappe, il sindacato autonomo, ha diffuso cifre regione per regione: detenuti totali, stranieri, capienza regolamentare e quella «tollerabile», personale previsto e personale presente. Sono i numeri di una fatica sommersa delle uniformi assimilabile, durante il servizio, a quella dei detenuti.
Nella vicinanza del Natale si è infittito il viavai di esponenti politici in visita, quella che spesso durante l’anno accende i malumori: «Vengono a vedere come stanno quelli di Garlasco, Perugia, Erba, dei fatti clamorosi». Ora no, ora sono arrivati per l’allarme rivolte e suicidi. Politici e Garanti dei detenuti, come in Lazio e in Sicilia. I radicali al Castrogno di Teramo dopo la morte del nigeriano Uzoma Emeka, 32 anni, testimone di un pestaggio poi finito in una registrazione. I pd a Regina Coeli e Rebibbia di Roma, a Marassi di Genova. Escono cifre tutte allarmanti, proposte tutte rincuoranti. Il ministro Alfano diffonde via agenzia la soddisfazione per l’inasprimento del 41 bis, la stretta di giro per i mafiosi. Ma i non mafiosi vogliono sapere di un’altra stretta di giro, quella della loro «dignità umana», che non finisce mai.
Ha riempito giornali e telegiornali Stefano Cucchi morto in ospedale a metà ottobre, secondo l’accusa per una valanga di botte. Ma nel calendario di fine anno molti giorni sono grani di un rosario angosciante. A Teramo si sente male e poi muore Emeka. Il 9 dicembre, ad Alessandria, si impicca in cella il pentito di camorra, appena trasferito, Ciro Ruffo, 35 anni. Venerdì 18, a Salerno (a Sorrento, dicono altre agenzie in questo turbine di echi raccolti e rilanciati) si appende dietro le sbarre Marco Toriello, 45 anni, tossicodipendente (il sessantanovesimo dell’anno, specifica l’Archivio, superato il «record» del 2001). E la conta impazzisce due giorni prima di Natale: in Liguria cerca di farla finita Paolo Arrigo, commerciante di 24 anni, indagato con la compagna per la morte del figlioletto. A Rebibbia si ammazza il collaboratore di giustizia Ciro Giovanni Spirito, killer della camorra. A Vicenza se ne va strozzato da un lenzuolo un sessantenne accusato di reati contro i minori. E’ un conteggio che, a guardare le pagine di ciascuno sparse sul tavolo, ti intontisce come un capogiro fra le lapidi d’un camposanto.
Si può andare a cercare nella psicologia delle festività, più incisive di altri momenti sulla depressione, con l’aggiunta di perdita della libertà, lontananza dei famigliari. Ma è troppo semplice. Perché gli altri fogli-lapidi sono il controcanto, il coro della resistenza fiaccata: «Battitura delle sbarre», «incendio dei materassi», «esplosione delle bombolette di gas», «aggressione agli agenti». Mari di tempesta, ovunque. Come nella poesia di un detenuto torinese: «Noi che muti tra queste mura / siamo silenzio del mare di sbarre / le nostre urla le sentirete soltanto / nel movimento dei manganelli / nelle fiamme di una cella / o nel lenzuolo che dà sonno per sempre».
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