Articolo di Fulvio Cammarano pubblicato su Corriere adriatico, il 06/04/10
Nonostante il passo indietro, il segnale lanciato dai governatori del Piemonte e del Veneto, Cota e Zaia, è piuttosto indicativo del radicamento di una nuova cultura politica. A forza di personalizzare la politica e di giocarla tutta sui personaggi, finisce che questi, una volta eletti, pensano di essere al di sopra della legge o meglio che la legge la facciano loro. L’idea di utilizzare l’appello del Papa contro l’uso della pillola Ru486 deve essere apparsa un’occasione irripetibile per continuare a cavalcare l’onda della polemica elettorale. Solo che le elezioni sono finite e come ha detto anche Berlusconi è ora di mettersi a lavorare. Questo vuol dire che l’euforia agonistica che ancora contagiava i neo-governatori deve placarsi anche perché, in questo caso, i sondaggi non rivelano una divisione ideologica sul tema. Molti elettori e soprattutto elettrici di destra sono infatti contrarie a quel vero e proprio calvario femminile che si verifica ogniqualvolta l’aborto controllato dal servizio sanitario viene ostacolato. La Ru 486 è uno dei modi attraverso cui si può ridurre il trauma dell’intervento ma non per questo è come “prendere un’aspirina”. Lo zelo da neofiti ha giocato un brutto scherzo ai governatori padani i quali non sono stati in grado di distinguere l’ambito delle dichiarazioni, degli annunci e dei proclami, in cui la Lega è maestra, da quello delle responsabilità di governo. Un conto è dire di essere contro la pillola abortiva e un altro è dichiarare che, come governatori, si oppongono al suo utilizzo negli ospedali delle due regioni.
Questa “uscita”, in termini tecnici, si chiama secessione, vale a dire quel fenomeno di separazione traumatica di una comunità dal proprio Stato che inizia sempre con il rifiuto di obbedire alle leggi di quest'ultimo. Da lì alla guerra civile, il passo è breve. Un po’ troppo, soprattutto se si pensa che sul tema anche all’interno della coalizione di governo e della stessa Lega non c’è unanimità di pensiero. Bossi sa bene che per raggiungere il proprio scopo, quello di una più o meno accentuata autonomia federale delle regioni italiane, deve continuare a presentarsi come alleato affidabile del PdL e componente politica radicata nel territorio. Chi vota Lega vuole rassicurazioni in merito alle politiche di controllo delle immigrazioni, chiede la difesa di un immaginario e superficiale mondo delle tradizioni (e tra queste anche il cattolicesimo del perbenismo, scudo d’identità piuttosto che pratica evangelica) ma certo non intende rinunciare alle conquiste di una sofferta modernità, come quelle della legge 194 che regola e limita la pratica abortiva. Il problema politicamente rientrato rimane però sullo sfondo ed è quello della mancanza di educazione istituzionale di questa leva di classe politica, quell’educazione che sa distinguere tra polemica e rispetto delle leggi, che fa dire a Casini o alla Finocchiaro che l’aborto è una sconfitta in sé ma la legge va sempre rispettata: se il modo d’intendere il proprio ruolo di governatori diventa occasione per creare dei contropoteri adesso che il governo è nelle mani del centro-destra, non è difficile immaginare cosa potrebbero accadere qualora l’esecutivo nazionale passasse al centro-sinistra.
E’ il destino della Lega: per quanto s’impegni a rassicurare gli italiani sulla bontà delle proprie intenzioni, non riesce, nei fatti, a cancellare l’immagine minacciosa di una forza che, per continuare ad avere successo, dovrà sempre brandire l’arma dell’anti-illuminismo e dell’irrazionalismo (a cominciare dall’indifferenza per le regole e per i diritti individuali), per tenere sotto scacco le istituzioni liberali.
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