Google, la minaccia di Pechino

Dalla Rassegna stampa

Si è preso quasi due giorni di tempo – una calma confuciana – ma alla fine il governo di Pechino ha reagito alla sfida di Google. Dopo che il colosso americano ha denunciato le ripetute violazioni alle email, ha minacciato di ritirarsi dal mercato cinese, e ha tolto i filtri dell´autocensura dal suo motore di ricerca in mandarino, le autorità cinesi hanno scelto un profilo basso. La portavoce del ministero degli Esteri, Jiang Yu, ha commentato semplicemente che «la Cina regola Internet sulla base delle sue leggi, in linea con le consuetudini internazionali». Ha aggiunto che la Repubblica Popolare è «aperta alle società straniere che operano su Internet nel rispetto delle leggi». Un passaggio che non sembra lasciare molte speranze: se Google insiste nella sua sfida, e se sul suo motore di ricerca continueranno a essere accessibili temi tabù come il Dalai Lama e il massacro di Piazza Tienanmen, l´oscuramento totale appare inevitabile. In quanto alle accuse che hanno dato origine a questo clamoroso conflitto, cioè le ripetute violazioni degli account Gmail di alcuni militanti dei diritti umani, nonché i gravi casi di spionaggio industriale da parte di hacker di Pechino, la portavoce del governo si è limitata a dire che simili atti sono contrari alla legge cinese. Non ha specificato se la legge venga applicata anche nel caso in cui la regìa dello spionaggio arrivi dallo stesso governo. Che è proprio quanto sospettano i vertici di Google.
Negli Stati Uniti le reazioni alla tensione con la Cina sono state di due tipi. Unanime il plauso dei mass media alla decisione del colosso californiano. Per il New York Times «in gioco c´è il futuro della nostra cyber-sicurezza», il columnist Nicholas elogia «la prima multinazionale che mostra di avere una spina dorsale», il Washington Post descrive gli attacchi cinesi «come parte di una campagna orchestrata con obiettivi strategici», il Wall Street Journal evoca il web come «il nuovo fronte della guerra fredda». Ma l´ardore del consenso tra l´opinione pubblica non si riflette nel mondo delle imprese. Ai vertici delle grandi aziende Usa ieri regnava un silenzio quasi totale. Unica eccezione, a mostrare uno scampolo di solidarietà con Google, è stata la sua concorrente Yahoo che ha emesso un comunicato in cui si definisce «allineata con Google». Forse anche per fugare ogni sospetto con le autorità cinesi, visti i precedenti. Yahoo fu al centro di un grave caso di delazione, quando accettò di consegnare alla polizia di Pechino le email di un dissidente. Alla Casa Bianca, dopo i primi appoggi a Google, ieri regnava la prudenza: i rapporti con la Cina sono ad alto valore strategico.
Ieri intanto sono emerse nuovi retroscena sulla natura dello spionaggio industriale di cui sono state vittime diverse aziende americane che usano i servizi Google e Gmail. Tra le società bersagliate, oltre a 34 aziende hi-tech della Silicon Valley californiana, figura anche un importante studio legale di Los Angeles, Gippson Hoffman. Uno degli avvocati dello studio, Gregory Fayer, ha rivelato che tra i loro clienti c´è un´importante azienda americana che ha in corso un processo da 2 miliardi di dollari contro il governo cinese. «Sarebbe molto strano – ha detto il legale – se l´attacco degli hacker cinesi non fosse collegato a questa causa».

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