Giustizia: reportage dal carcere di Padova, 400 posti e il doppio di persone… “non fateci sentire vittime”

Dalla Rassegna stampa

A Padova le celle erano state concepite per essere tutte singole; poi sono diventate doppie, adesso triple. Ciascuno può contare su 2,85 metri quadrati di spazio. La prima tappa del viaggio nelle carceri italiane. Padova, 400 posti e il doppio di persone.
“Se stiamo dentro a marcire, non diventeremo mai persone responsabili”. La vita in galera ha una colonna sonora, specie al mattino: deng, deng, deng... La chiamano “la battitura”: gli agenti picchiano sulle sbarre per capire se qualcuno, di notte, le ha segate.
Entro nel carcere di Padova con Ornella Favero: è la direttrice di “Ristretti Orizzonti”, una rivista fatta con i detenuti, e insieme con Silvia Giralucci organizza incontri fra i carcerati e gli studenti. C’è con noi un ragazzo albanese che si chiama Elton Kalica. Era uno di quelli che stavano dentro. Adesso che è libero, e fa il volontario, è uno di quelli che fa credere nella possibilità di cambiare.
All’ingresso ci sono uomini ma soprattutto donne e bambini. Sono i parenti. Aspettano di entrare per il colloquio. Gli agenti perquisiscono tutti, anche i passeggini vengono passati per i raggi x. Questo carcere si chiama Due Palazzi ed è una casa di reclusione: vuol dire che chi c’è dentro non è in attesa di giudizio: ha condanne definitive superiori ai cinque anni.
Ci sono molti ergastolani. Assassini, mafiosi, uxoricidi, spacciatori. È il mondo che crediamo tanto lontano da noi. “Lavoriamo per annullare quella finta distanza che hanno creato tra chi è in carcere e chi è fuori”, mi dice entrando Ornella Favero: “Si pensa che sia un problema che non ci riguarda, invece riguarda tutti. Sa una cosa? È quasi paradossale, ma oggi i genitori sono più preparati all’idea che un figlio possa morire in un incidente stradale che non che possa finire in prigione. Invece, basta un attimo”.
Questo carcere, per tanti aspetti, è considerato uno dei migliori: qui dentro un po’ di detenuti possono lavorare, ad esempio. Per il resto, il Due Palazzi è l’immagine della situazione generale. Ha una capienza di 400 posti, ma dentro ci sono 920 persone. Le celle erano state concepite per essere tutte singole; poi sono diventate doppie, adesso triple. Ciascuno può contare su 2,85 metri quadrati di spazio. Quaranta detenuti su cento sono stranieri.
Ci sono varie sezioni: i comuni, l’AS1 e l’AS3 che sono l’alta sicurezza, i protetti che sono quelli che hanno commesso reati che la legge della galera non ammette (roba di sesso, e collaboratori di giustizia) e che pertanto non devono entrare in contatto con gli altri. È un carcere che ha avuto le sue disavventure: il 14 giugno 1994 Felice Maniero evase da qui uscendo tranquillamente, a piedi, per il corridoio principale.
In cortile si vedono, per terra, bottiglie di plastica, giornali, lattine: è la spazzatura che i detenuti buttano dalle finestre per protestare. Contro che cosa? In carcere si protesta per tante cose. “Il sovraffollamento”, mi dice Lorenzo Sciacca, un detenuto, “è il problema più grave”.
Li incontro nella sala che “Ristretti Orizzonti” ha allestito come redazione. Sono una ventina. Italiani e stranieri. La maggior parte ha pene molto alte, qualcuno l’ergastolo. Ecco le loro voci dalla galera.
Bruno Turci, genovese: “Quando incontriamo gli studenti, ci rendiamo conto che sono condizionati da un’informazione che ci descrive come mostri. Poi cominciano a conoscerci e capiscono che non esistono i mostri: esistono persone che hanno commesso cose che non vanno bene”. Gli chiedo se pensa mai- ed è una domanda idiota, perché è chiaro che ci pensa sempre - a che cosa farebbe “fuori”.
Mi spiega che uscire è un miraggio che fa anche paura: “Quando esci sei solo. Non sei riconosciuto come persona. Sei un ex detenuto. Se non hai una famiglia che ti accoglie e ti accompagna, che cosa fai? Vai a cercare un lavoro. E allora ti chiedono la fedina penale. E dunque cosa fai? Torni a fare quello che facevi prima”.
Per questo “il lavoro in carcere è importantissimo”. Racconta: “Ho lavorato cinque anni in una cooperativa a Opera. Facevamo assistenza a varie aziende per la componentistica elettronica. Avevo imparato un lavoro. Ma poi mi hanno trasferito”.
Clirim Bitri, albanese: “Sono in carcere da quasi cinque anni, in redazione di “Ristretti Orizzonti” da uno. Per quattro anni, ho cercato solo di stare il meglio possibile in sezione. In quella condizione, chiuso in cella a far niente, non pensi a quello che hai fatto. Pensi: quando esco, faccio un colpo che mi sistema per tutta la vita.
Perché vedi la detenzione come un debito da pagare: pagato quello, puoi fare quello che vuoi. È stato incontrando i ragazzi, e le altre persone che stanno fuori, che ho potuto capire che scontare la pena non basta: il male che hai fatto continua”. Non chiede sconti per sé, ma pietà per la sua famiglia: “Io devo scontare la pena. Ma perché la devono scontare anche i miei genitori?
Loro vorrebbero incontrarmi, anche se non sono il figlio che avrebbero desiderato: perché negare loro questa possibilità? La famiglia viene messa in condizione di abbandonare il detenuto, e questo è pericolosissimo, perché quando esci, se non hai la famiglia, è più facile ricadere”. Anche lui teme la vita fuori: “Il picco dei suicidi in carcere è concentrato in due periodi: appena entrati e poco prima di uscire. Perché quando stai per uscire ti chiedi: e adesso che cosa farò?”.
Gianluca Capuzzo, medico, padovano: “L’aspetto importante degli incontri che facciamo in carcere è la prevenzione. Raccontare le nostre storie, che spesso sono molto simili alle storie di
tutti, fa capire che il confine tra noi e chi è fuori è molto esile. Quindi aiuta tutti: chi è fuori a rendersi conto che può succedere anche a loro; e noi a renderci conto delle nostre responsabilità”.
Avendo davanti un giornalista, richiama il nostro mestiere ai rischi della superficialità: “Quando uno commette un reato, i media raccontano solo la parte finale di quello che è successo. E così semplifica, distacca dalla realtà”.
Lorenzo Sciacca si autodefinisce “un delinquente”: “Prima di entrare io, pur essendo un delinquente, avevo pregiudizi su chi commette certi tipi di reato. Perché non conoscevo le persone. Adesso lavoro con detenuti che hanno commesso proprio quel tipo di reati e capisco che hanno avuto molto coraggio nel mettersi in gioco, nel parlare delle loro storie. Capisco che dietro, a volte, ci sono situazioni drammatiche. Soprattutto capisco che dietro a quei reati c’è una persona”.
Ulderico Galassini, di Rovigo, era un direttore di banca: su “Ristretti Orizzonti” ha raccontato quella che chiama “l’esplosione di follia” che lo portò a rovinare la sua famiglia. Oggi ha un dolore nel dolore: “Non abbiamo contatti con le famiglie. Sei ore al mese di colloquio, una telefonata a settimana di dieci minuti. E per gli stranieri tutto è più difficile”.
Victor Mora, cileno, conferma: “Per noi stranieri è molto complicato anche telefonare, perché chiedono la bolletta del destinatario, ed è difficile recuperare una bolletta dal Cile. Io ho fatto il delinquente fin da bambino e ho girato carceri in tutto il mondo. Non ho mai trovato la burocrazia che c’è in Italia. In Sudamerica c’è una cabina telefonica dove infili una tua scheda e telefoni quando vuoi e quanto vuoi. Dieci minuti non bastano a niente. Ieri parlavo con mia mamma, mi stava raccontando della sua malattia e sono finiti i dieci minuti”.
Bruno Monzoni, varesino: “La stragrande maggioranza dei detenuti è dentro per tossicodipendenza. Qui a Padova trecento sono registrati come tossicodipendenti. Che cosa si fa per recuperarli? Due incontri la settimana con gli psicologi per una decina di detenuti. Gli altri vengono imbottiti di psicofarmaci”.
Sandro Calderoni, mantovano: “La maggior parte di chi finisce qui dentro c’è finita perché nella vita ascoltava solo se stessa. Per questo per me è stato importante far parte del progetto di incontri con le scuole. Se in carcere stai sempre isolato, non capisci quello che hai fatto. Confrontarsi con gli altri ti fa prendere coscienza che hai delle responsabilità”. Il “dopo” è un chiodo fisso per tutti: “Quando esci hai un marchio”.
È lui, Calderoni, che alla fine dell’incontro ha quasi uno scrupolo, comunque una preoccupazione: “Non vorrei che tu pensassi che il nostro è un lamento. Noi cerchiamo di far capire che se stiamo dentro a marcire in cella, ci sentiamo vittime anziché responsabili di qualcosa. Così diventa difficile cambiare, e quando usciamo siamo anche peggio prima. Ecco perché dare un senso alla nostra detenzione non è meglio solo per noi, è meglio per tutta la società, è meglio per la sicurezza “fuori”. Star dentro come si sta dentro adesso non rieduca nessuno”.
Il tempo è scaduto, la guardia viene a dire che è ora di uscire. Uno dei carcerati mi chiede: “Qual è la cosa che ti ha colpito di più fra tutto quello che ti abbiamo detto?”. Rispondo d’istinto: “Quel che mi ha colpito di più è stato potervi guardare in faccia”. È difficile spiegare, ma sono sguardi che restano, e che hanno a che fare con il mistero che è ciascuno di noi.

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