La giravolta di Bossi, l'interesse del paese

La politica italiana a volte rasenta il limite dell'assurdo. Prendete il vertice Berlusconi-Bossi che ha avuto un finale francamente incredibile, perché ha stabilito: a) che non ci sarà alcun coinvolgimento dell'Udc nel governo, come se non si sapesse che i vertici di quel partito avevano già negato ogni disponibilità a farsi coinvolgere; b) che non ci saranno le elezioni anticipate, dopo che Bossi aveva sbraitato a destra e a sinistra che erano inevitabili e si era anche lanciato ad indicare le date in cui avrebbero avuto luogo.
Come interpretare dunque questa giravolta su sé stessi? La prima risposta, persino ovvia, è che, finalmente verrebbe da dire, il presidente del Consiglio e il detentore della "golden share" della maggioranza hanno capito che le elezioni anticipate sarebbero una misura sgradita alla gente: si dice che i sondaggi indicano la quota di ripulsa di quella soluzione intorno all'85%- del campione intervistato. Fosse anche qualcosa di meno è sempre una indicazione piuttosto rilevante.
Ci si aggiunga che in condizioni di permanente crisi economica e con alle porte un autunno olio non si prospetta tranquillo anche gli industriali, i banchieri, i protagonisti insomma del mondo economico vedono l'ipotesi di una instabilità al vertice del Paese come una prospettiva molto preoccupante e sono poco disposti a rilasciare cambiali in bianco ad una maggioranza politica. Se ne sono accorti anche gli uomini più capaci della Lega. Quando Maroni ha detto ieri al Meeting di Rimini che vedeva all'opera una congiura anti-Berlusconi, esprimeva nel solito linguaggio colorito e sopra le righe della sua parte, la percezione di questa realtà.
Insomma Berlusconi e Bossi si sono resi conto che la loro sopravvivenza dipende non dalla capacità di drammatizzare oltre misura lo scontro politico in atto, ma dalla loro eventuale capacità di ritornare ad essere una maggioranza che non solo parla di riforme, ma che le fa. In quest'ottica l'affermazione di non avere bisogno di aggiungere un posto a tavola (riprendiamo la felice battuta dell'on. Cesa) pur sapendo che quel commensale non aveva nessuna intenzione di sedersi e mangiare, vuol solo dire che secondo il presidente del Consiglio la maggioranza deve assolutamente dimostrare, se vuole un minimo di credibilità, di essere in grado di fare da sola.
Già, ma come? E che cosa? Il vero nodo della questione sta qui. Al netto delle antipatie personali e dell'incanaglirsi della lotta politica le questioni sul tappeto sono tremendamente reali e complicate. Per esempio: si parla tanto di federalismo fiscale, ma come attuarlo in un momento di crisi, con le Regioni meridionali non proprio in condizioni fiori de e con scarse opportunità di poter attivare un solidarismo positivo fra chi è messo bene e chi è messo peggio? Non parliamo della giustizia: in linea di principio tutti capiscono che una riforma è indispensabile, ma poi, fra sospetti di misure fatte per favorire questo o quello, chiusure su privilegi corporativi, difficoltà nel razionalizzare un sistema cresciuto non di rado all'ombra del clientelismo politico. risulta difficilissimo trovare quella che Bossi chiamerebbe "la quadra". Non sarebbe difficile continuare con un elenco del genere, che sarebbe anche abbastanza lungo (università. fisco. sanità, scuola, infrastrutture, ecc, ecc.).
Gli uomini più responsabili della maggioranza capiscono che se vogliono salvare il senso della loro esperienza non hanno alternativa al mettersi seriamente sul cammino delle riforme. Lo ha detto, anche piuttosto esplicitamente, il sen. Quagliariello in un dibattito con Rutelli a Radio Radicale. Tuttavia questo è più facile a dirsi che a farsi, perché le riforme vere richiedono un consenso ampio, una disponibilità a rinunciare alle tante bandierine identitarie dietro cui si trincera una politica fatta di guerre per bande.
La tradizione del nostro Paese è, come in molti Paesi avanzati, quella di una politica che cerca il consenso. Il fatto che ciò sia degenerato più di una volta in un perverso consociativismo non dovrebbe rendere ciechi su quanto di positivo è stato creato con la paziente costruzione di un consenso allargato. Il Paese non solo, ha bisogno, ma chiede governabilità, perché si rende conto che senza sarebbe messo in posizione difficile, addirittura pericolosa nel contesto della crisi attuale. Tuttavia la governabilità non è solo questione di numeri per fare una maggioranza o di ricattini con la minaccia di sfasciare tutto. Intanto perché bisogna essere realisti: per esempio quasi nessuno sembra aver messo in conto che anche nel caso di elezioni anticipateci dovrebbe essere un governo "di ordinaria amministrazione" per gestire i tre mesi circa che ci vogliono per andare al voto. E in queste condizioni solo a pensare come si potrebbe trovare un accordo ragionevole su chi farà questo governo c'è di che rompersi la testa. Dunque c'è da augurarsi che si capisca che sta finendo una stagione: quella che si era illusa di potere risolvere i problemi del Paese con una grande sfida per decidere se dovesse essere totalmente nelle mani dei guelfi o dei ghibellini. Se si crede davvero a quella sovranità del popolo tanto strombazzata in questo agosto infuocato, la classe politica (tutta) prenda nota che il popolo vuole un Paese normale, dove si governa nell'interesse di tutti, ci si misura davvero coi nodi per scioglierli, si fanno nascere le riforme dal confronto e dal ragionamento e non dalla pura composizione degli interessi dei clan in campo. Se prevarrà questo elementare buon senso, l'agosto non sarà stato invano un mese bollente della politica italiana. Se invece vinceranno, al di là di quello che è successo ieri, gli "animal spirits" delle lotte di clan e di fazione non ci sarà che una breve e probabilmente poco utile tregua.
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