Il giallo del pentito suicida. La moglie: pestato in carcere

Dalla Rassegna stampa

La moglie del pentito di camorra Ciro Ruffo accusa: «Mio marito non è morto suicida in carcere, è stato picchiato». La procura di Alessandria apre un’inchiesta, il magistrato Riccardo Ghio interroga gli agenti di polizia penitenziaria che hanno seguito il detenuto nel trasferimento dal carcere di Ariano Irpino a quello di Alessandria. Nulla per ora porterebbe a pensare a un pestaggio, fanno trapelare gli investigatori. Sarà comunque l’autopsia disposta per oggi a chiarire se i lividi trovati sul corpo di Ruffo siano compatibili con un suicidio per impiccagione o un pestaggio.

Tutto comincia lunedì quando Ciro Ruffo, alle 15.20 mette piede nel penitenziario «San Michele». Viene sistemato in una cella singola. Due ore dopo chiede l’autorizzazione per fare una telefonata e domanda a un agente di procurargli un accendino. Quando la guardia torna, una ventina di minuti dopo, intorno alle 18.40, lo trova impiccato con un lenzuolo alle sbarre della cella. Non aveva neppure disfatto il borsone con le sue cose e aveva rifiutato la cena.

Tocca alla direttrice del carcere Rosalia Marino dare la notizia alla moglie di Ruffo, sotto protezione in località segreta nel Nord Italia con i due figli piccoli. Lei va in obitorio e quasi non lo riconosce: «Ha il naso rotto, lividi sulla pancia, sulla schiena, sulla pancia. Ha perso sangue dagli occhi e dalle orecchie, non aveva nessun motivo per togliersi la vita perché mio marito era felice di trasferirsi finalmente vicino alla famiglia».
Oltre alla procura di Alessandria anche il provveditore per le carceri del Piemonte Aldo Fabozzi ha ordinato un’inchiesta interna: «Dalla dinamica che abbiamo ricostruito mi sento di escludere il pestaggio. Capisco il dramma familiare, ma arrivare a certe accuse è esagerato, non sono tutti casi Cucchi». Il Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria è critico: «Basta attacchi alla nostra onorabilità o non esiteremo a querelare chi ci offende».

L’Osservatorio permanente sulle morti in carcere ricorda, in una nota, che il suicidio di Ruffo è il numero 67 dall’inizio dell’anno, il terzo nel carcere di Alessandria. «La morte di Ruffo — spiega l’Osservatorio — presenta analogie con quella avvenuta lo scorso 17 novembre nel carcere di Palmi, dove Giovanni Lorusso, 41 anni fu ritrovato cadavere con un sacchetto di plastica infilato in testa e riempito di gas: entrambi i detenuti arrivavano dal carcere di Ariano Irpino e e a detta dei familiari non avevano alcun motivo per suicidarsi». Sull’argomento Rita Bernardini, deputata dei Radicali-Pd ha presentato ieri una interrogazione al ministro della giustizia.
Alla Dda di Napoli i magistrati hanno accolto con stupore la notizia della morte di Ruffo, considerato un elemento di secondo piano del clan di Tella, legato a Francesco Schiavone, detto Sandokan. L’ultima volta era stato arrestato il 16 luglio scorso per estorsioni a imprenditori edili e commercianti nella zona di Carinaro (Caserta). Aveva appena finito il «verbale di rivelazioni», giudicate di basso livello da parte degli inquirenti. A breve avrebbe ottenuto gli arresti domiciliari, ma da qualche tempo — trapela dalla Dda di Napoli — era caduto in depressione. Una radiografia aveva rivelato una strana macchia, avrebbe dovuto fare altri accertamenti, ma lui era convinto di avere un tumore.

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