Giù le mani dal segretario del Pd

È cominciato il tiro al Bersani. Tiro della giacchetta, per dirla alla Di Pietro. Tutti vogliono qualcosa da lui, tutti lo consigliano, tutti gli intimano. I grandi giornali se lo contendono come una palma della vittoria. La Repubblica lo critica se non va al No B. Day, il Corriere l’approva perché non segue la Repubblica. Allora la Repubblica si rizela e per la firma di Scalfari se lo mette sotto tutela: «Io sono amico di Bersani... ha molte qualità... anche la testardaggine... Salvacondotti non ne darà». Quelli del Corriere vogliono che la principessa Bersani baci il rospo Berlusconi. È il ragionamento di Scalfari. E parte l’avviso: Bersani è più amico nostro che vostro, non lo farà.
È raro che in Italia ci si accanisca tanto a indicare la strada a un leader politico. Berlusconi o è adorato o è odiato, ma nessuno passa il tempo a dirgli che cosa deve fare (se non Ferrara, ogni tanto, che se lo può permettere).
A Casini nessuno indica la via della salvezza, se non il Padreterno. Di Pietro, nemmeno a parlarne: fa quello che vuole. Ma dare ordini al Pd è diventato lo sport nazionale dei giornali italiani. Dipende dal fatto che per troppo tempo il Pd gli ordini li ha davvero presi, e in modo anche un po’ confuso e contraddittorio. Il giochetto si riapplica ora a Bersani: fai la nuova giunta in Sicilia, non farla, dialoga sulle riforme, non dialogare, vai in piazza, non ci andare.
Il contenuto di questo pressing è talvolta paradossale. Per esempio: Bersani è generalmente accusato di aver spostato troppo a sinistra il suo partito, tant’è che Francesco Rutelli e Dorina Bianchi se ne sono andati. Ma, contemporaneamente, è accusato di essere troppo moderato perché non calca l’asfalto in tenuta viola. Gli si rimprovera una tentazione al dialogo con Berlusconi sulle grandi riforme, proprio mentre il Governo gli sbatte la porta in faccia su una cosa molto più triviale della Costituzione: i soldi della Finanziaria. Così che il Bersani medesimo deve dichiarare che Tremonti gli ha dato un cazzotto in faccia, facendo pre-votare la fiducia su un maxiemendamento di dimensioni che nemmeno Padoa-Schioppa; e neanche dall’Aula, ma da una commissione parlamentare. Gli si intima di battere Berlusconi alle regionali per aprire la strada a un’alternativa, ma poi gli si contesta la ricerca di alleanze per vincerle davvero le elezioni, almeno in qualche regione. È risuscitata perfino la sinistra radicale per intimargli che se non dice no al nucleare sempre e dovunque - il che equivale a dire no all’accordo con l’Udc sempre e dovunque - quelli vanno da soli e regalano le regioni in bilico al centrodestra.
Ci vorranno nervi molto saldi per tenere la barra in questo mare. Bersani può e deve farlo. È stato eletto da un voto popolare, finalmente in una gara vera, finalmente sulla base di un programma politico. Il programma è riportare rapidamente il Pd in condizioni tali da guidare, o almeno ispirare, una coalizione in grado di cominciare ad assestare qualche colpo elettorale a Berlusconi, mentre gli estremisti del suo campo si accontentano di sperare che un mafioso faccia il miracolo che l’opposizione non è riuscita a fare in quindici anni: liberarsi di B.
Per portare a compimento la missione che gli è stata assegnata, Bersani deve ignorare il chiacchiericcio del Palazzo e dei media, e puntare sul popolo, quello che vota. Domani e dopo ne porterà in piazza un’avanguardia, tanto per battere un colpo e far capire a Di Pietro che le masse ce le ha anche lui. Ma deve al più presto identificare qualche parola d’ordine capace di risvegliare l’interesse dell’elettorato e dimostrargli il senso del Pd. L’opposizione diventa forte e si presenta come alternativa reale solo allora, quando propone e ottiene cose che l’elettorato vuole e di cui il Paese ha bisogno. Un solo esempio: l’altro giorno Obama ha deciso una cosa che Bersani ripete da tempo, mutatis mutandis: che senso ha offrire soldi alle banche perché poi li diano alle piccole e medie imprese? Non è meglio darglieli direttamente, sotto forma di sgravi fiscali? Ecco, il Pd di Bersani deve al più presto diventare l’alfiere e il protagonista di una politica di sviluppo, perché un partito riformista non si occupa di molto altro. Tutto il resto è chiacchiera, destinata a finire non appena comincerà a salire nei sondaggi. Un leader politico deve pensare al consenso degli italiani, ma per farlo deve avere le mani libere. Dunque, giù le mani da Bersani.
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