La geografia cambia: forse è nato il Pd

Dalla Rassegna stampa

Le primarie di domenica scorsa hanno cambiato diverse cose nella scena politica italiana. E non solo perché i cittadini scampati, per ora, all’attrazione dell’antipolitica, si sono riversati come un fiume in piena nei circoli del Pd per scegliere il candidato premier alle prossime elezioni.

 

Non solo perché si è trattato delle prime primarie nazionali non puramente celebrative di un leader già vincitore ancor prima che venisse apposta la prima crocetta. Sembra passata un’era geologica dalla Sicilia del tutti-a-casa e del Grillo che sbraita invocando l’epurazione a tolleranza zero di qualsiasi cosa assomigli a uno qualsiasi dei partiti pre-esistenti alla sua traversata messianica. Domenica qualcosa è cambiato, comunque vada a finire.

 

Una delle lenti attraverso cui si può leggere il risultato mette a fuoco la mutata «geografia del centro-sinistra». Un primo aspetto riguarda l’annosa questione dell’equilibrio (e della convivenza) tra la sinistra radicale e l’area riformista, un tempo (1996) rispettivamente perimetrate dall’Ulivo e da Rifondazione. Sotto questo profilo, il risultato di domenica scorsa trova un parallelo comparabile nelle primarie di coalizione del 2005. Allora l’area ulivista era rappresentata da un solo campione (Romano Prodi), mentre dell’altra si curava Fausto Bertinotti. Va detto che quando Vendola ha lanciato la sfida, un paio di anni fa, aveva la ragionevole ambizione di fare molto meglio. Per un momento ha forse considerato di poter essere davvero una alternativa credibile a Bersani, fino a che Renzi non solo gli ha tolto la scena, ma ha alimentato una competizione interna «tra» i riformisti che ha fatto tornare Nichi nell’angolo. Bertinotti nel 2005 era arrivato al 15 contro il 74% dei consensi di Prodi, tra Bersani e Renzi (sommati) da una parte e Vendola dall’altra il rapporto è di 82 a 16. Rispetto alle aspettative, la sconfitta è cocente e, senza il plebiscito pugliese, le cose sarebbero andate anche peggio. A meno che ora non faccia pesare la sua quota nel secondo turno e Bersani la accetti dando in cambio un peso maggiore a quei numeri.

 

Le primarie del 2012, si sa, sono state un ibrido. Per un verso primarie di coalizione (come nel 2005), per l’altro confronto interno al Pd. Un confronto che il segretario ha cercato di gestire giocando il ruolo del leader che attenua i conflitti, include e ricompone, del buon padre di famiglia, che lascia fare, sicuro che vincerà, pur essendo ben consapevole di quanto fosse e sia alta la posta per la sua «ditta». In realtà, dietro alle schermaglie sulle caratteristiche personali dei due leader e i sui loro progetti, sulle foglie nuove dalle radici antiche e sul non aspettare e metterci la faccia, si è di fatto riproposto, in forme nuove, il conflitto tra il Pd leggero, plurale e aperto pensato al Lingotto e la regressione post-diessina del partito «strutturato e radicato nel territorio». Sotto questo secondo profilo, il duello Renzi-Bersani può essere comparato con le primarie-congresso del 2009. Anche allora Bersani aveva come antagonista un interprete del Pd delle origini, con caratteristiche parecchio diverse, però. Mentre Franceschini era appoggiato da una discreta parte del gruppo dirigente (Veltroni, Fioroni, Fassino), Renzi ha giocato la sua partita prendendo le distanze da tutti, con il sostegno di diversi sindaci, ma solo di una sparuta pattuglia di parlamentari. Ciononostante la sua prestazione è stata considerevole. Tra il 2012 e il 2009 Bersani perde ben 230.000 voti. Renzi ne acquista invece circa 60.000 in più di Franceschini. Qualcosa è cambiato anche nella distribuzione territoriale. Il confronto tra Bersani e Franceschini fu un confronto tra macchine organizzative omogeneamente distribuite sul territorio. Quasi dappertutto i rapporti di forza erano di circa 33 a 50. Renzi invece vince su Bersani proprio nelle regioni rosse (56 a 53), quasi pareggia nel resto del Nord (40 a 48), ma perde al Sud (21 a 39), dove l’elettorato di opinione per ora non si è mobilitato. Famiglie politiche, subculture e appartenenze originarie che si mescolano; forse il vero Pd è questo qui.

 

Ovviamente, molto potrebbe ancora cambiare, al secondo turno se, come in ogni competizione simile, la partita fosse davvero aperta, e non si pretendesse (del tutto incomprensibilmente) di chiudere il recinto della partecipazione a chi ha già votato.

 

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