Il gelo di Rosy sul segretario

Dalla Rassegna stampa

La gestione dell’assemblea nazionale del Pd di sabato scorso è apparsa a più d’uno quanto meno discutibile. Un partito può certamente permettersi una maggiore elasticità rispetto ai regolamenti parlamentari. E pur di dare adeguata voce a un dissenso che si presume comunque minoritario, può ammettere al voto ordini del giorno in contrasto con i documenti già approvati. Ciò non è stato fatto né sul tema delle primarie, né – cosa che ha suscitato maggiore clamore – sui diritti civili.
Detto questo, è opportuno non fermarsi solo all’ultimo atto di un percorso che è stato lungo e travagliato. E capire perché oggi i rapporti tra Rosy Bindi e Pier Luigi Bersani siano diventati tesi, al di là della solidarietà espressa dal segretario alla presidente di fronte agli attacchi di Grillo. L’elaborazione del testo sui diritti civili che è stato presentato sabato in assemblea, infatti, è arrivata al termine di una discussione che è durata un anno e mezzo, all’interno del comitato presieduto da Bindi e voluto da Bersani. Non c’è stata, evidentemente, una decisione unanime, ma non si può dire che sia stato un colpo di mano.
La mediazione trovata è stata poi portata in assemblea, sempre su decisione condivisa dalla presidente e dal segretario del partito, nonostante i pareri contrari dei componenti del comitato che fanno riferimento all’area laica di sinistra (Cuperlo e Pollastrini i più rappresentativi) e alla ex mozione Marino (Concia, Scalfarotto). Le stesse aree che hanno poi presentato in assemblea il contributo in dissenso e sostenuto, più o meno direttamente, gli ordini del giorno non ammessi al voto. Che qualcuno “osi” opporsi alla linea ufficiale del partito, per di più di un partito che si proclama democratico e plurale, è perfino auspicabile.
Se però ad alzare la voce, con gli effetti mediatici prevedibili (e voluti?), sono dirigenti di diretta nomina e tra i più vicini al segretario, allora è lecito sospettare che ci sia un problema di gestione interna. Un problema che ha causato il nervosismo di Bindi, rivolto proprio nei confronti di Bersani. Tanto da non dare per scontato il suo sostegno al leader alle primarie («Se me lo chiederà», diceva ieri al Corriere).
Perché il documento pro-matrimoni gay portava in origine la firma di membri della sua segreteria (del responsabile diritti Ettore Martinelli e di quello economico Stefano Fassina), poi espunte. E perché l’area laica di Cuperlo e Pollastrini è in genere accostata al nome del segretario. Bersani in passato ha già dovuto più volte prendere le distanze da alcuni componenti della sua segreteria. Sono ben note, soprattutto, le affermazioni di Fassina e Orfini contro il governo Monti, che il Pd sostiene in parlamento. Ora, ai problemi mediatici dovuti a una cacofonia di voci proveniente dai vertici del Pd, si aggiungono quelli relativi ai rapporti personali del segretario con altri dirigenti della sua maggioranza (Bindi, ma anche Letta, D’Alema e Franceschini non sono sempre contenti di alcune “intemperanze”). Il tutto ormai alla vigilia delle preannunciate primarie d’autunno e, a seguire, di una delicatissima campagna elettorale. Nella quale il candidato premier dovrà dimostrare non solo di poter proseguire nel percorso che dovrà portare il paese fuori dalle secche della crisi, ma anche di tenere insieme progressisti e moderati in un progetto di governo comune. Pena lo spauracchio dell’Unione prodiana. Il pluralismo del Pd – definizione talvolta eufemistica – rappresenta un’ottima palestra per Bersani. I suoi risultati, però, non sono univoci. Gli rimangono pochi mesi per mettere alla prova le sue capacità di guida, di sintesi e di scelta delle personalità adatte ad affiancarlo nella prossima sfida di governo.

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