Il freddo inverno dell'«Articolo 18»

Impazza in questi giorni la polemica sull'art. 18 dello «Statuto dei lavoratori», che vede contrapposti i fautori di tale norma, considerata un baluardo della tutela del lavoro subordinato, a chi ritiene la sua abrogazione (o quantomeno la sua riscrittura) uno strumento per rendere più flessibile il mercato del lavoro. Sullo sfondo, uno scenario economico e sociale certo molto diverso da quello in cui la norma ha visto la luce, segnato com'è da un sempre più drammatico divario tra i fortunati che fruiscono di un rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato e l'esercito crescente dei precari nelle varie accezioni e formule via via elaborate. Per non dire di coloro che di un'occupazione sono alla ricerca.
Ma come nasce la norma oggetto del contendere?
È sull'onda dell'«autunno caldo» che il Parlamento approva la legge 20 maggio 1970, n. 300, meglio conosciuta come «Statuto dei lavoratori». La maggioranza che la vara, in verità, non è stratosferica alla Camera dei Deputati sono presenti solo 352 deputati su 630, i voti a favore sono 217 - eppure si tratta di una vera rivoluzione per il nostro diritto del lavoro, di una normativa destinata a costituire il fondamento della legislazione in materia nei decenni successivi e a segnare i rapporti tra datori di lavoro e lavoratori, sotto l'egida delle organizzazioni sindacali. L'Italia volta pagina, recependo e attuando alcuni principi cardine della Carta costituzionale, primi fra tutti l'art. 1 («L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro») e l'art. 4 Costituzione («La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto»).
Era stato uno dei più autorevoli sindacalisti del dopoguerra, il pugliese Giuseppe Di Vittorio (1892-1957), ad affermare per primo nel 1952 - l'anno dopo sarebbe diventato il presidente della Federazione sindacale mondiale - la necessità di una legge-quadro che adeguasse la normativa ai precetti costituzionali, a rivendicare l'esigenza di uno Statuto che tutelasse la libertà e la dignità dei lavoratori.
Ma nonostante fossero in molti a considerare iniqui i rapporti di lavoro regolati da una disciplina ormai obsoleta e la cui tutela in sede giudiziaria era spesso caratterizzata da pronunce contraddittorie, anche a causa di una serie di nuove figure che richiedevano una normativa al passo con i tempi, l'indifferibile riforma legislativa dovette attendere ancora quasi un ventennio per vedere la luce. Fu proprio la bollente stagione delle lotte sindacali e operaie a «costringere» la classe politica a metter fine ad un lungo periodo di astensionismo legislativo iniziato dopo la seconda guerra mondiale.
Tra le norme più controverse, fin da subito, proprio l'art. 18, dedicato alla reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo. In essa si stabilisce che il giudice, con la sentenza in cui annulla il licenziamento discriminatorio o intimato senza giusta causa o giustificato motivo deve ordinare al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro: reintegrazione e non riassunzione, cioè a dire obbligo di ricollocare il lavoratore nella medesima posizione occupata prima del licenziamento illegittimo, senza perdita dell'anzianità di servizio. In alternativa, il lavoratore può accettare un'indennità pari a quindici mensilità del suo ultimo stipendio, fermo restando - in ogni caso - il diritto ad ottenere il risarcimento del danno prodotto dal licenziamento.
La norma, però, si applica soltanto alle aziende che abbiano almeno quindici dipendenti. Per le altre, nei medesimi casi, il datore di lavoro può scegliere se riassumere il lavoratore licenziato o corrispondergli un risarcimento. È questa disparità di trattamento uno dei motivi che ha alimentato il contrasto tra gli opposti schieramenti e che ha originato ben due referendum popolari, entrambi conclusi con un nulla di fatto. Il primo, promosso dai Radicali e indetto nel 2000, intendeva abrogare le garanzie previste dall'art. 18 per i lavoratori di aziende con più di quindici dipendenti: non raggiunge il quorum (votano il 32 per cento degli aventi diritto) e neanche la maggioranza dei voti validi (poco più del 33 per cento i sì). Il secondo, promosso da Rifondazione Comunista e svoltosi nel 2003, mirava al contrario ad estendere le garanzie dell'art. 18 anche ai lavoratori di aziende con meno di quindici dipendenti: pure in questo caso niente quorum (appena il 25,50 per cento i votanti tra gli aventi diritto), anche se i sì, tra i voti validamente espressi, superano l'86 per cento.
Come dire che la questione non sembra interessare una gran fetta di italiani. Si tratta allora solo di un falso problema? In realtà il tema del lavoro che non c'è ha via via assunto connotazioni più drammatiche e stringenti nel nostro Paese in questi ultimi anni, anche se probabilmente non è l'intervento correttivo sull'art. 18 a poter costituire la panacea di tutti i mali. L'assunto che una minore rigidità nei licenziamenti possa facilitare nuove assunzioni - e dunque un più agevole ingresso nel mercato del lavoro delle nuove generazioni, attualmente le più penalizzate - è tutto da verificare. E poi non bisogna dimenticare che il tessuto economico del Belpaese è fatto prevalentemente di piccole imprese, che per i loro numeri esigui sfuggono di per sé alla morsa dell'obbligo di reintegro.
Né vincitori né vinti, insomma, nella battaglia su una norma da molti considerata un totem e che invece sembra vivere ora il suo freddo inverno.
Tutto questo mentre i giovani che si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro - molto spesso ignari della storia e delle lotte talvolta cruente condotte dai loro padri per rivendicare i diritti negati sono costretti, ormai, a barcamenarsi in una società sempre più «flessibile», alla ricerca di un'improbabile stabilità economica.
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