Forza Ing.

Dalla Rassegna stampa

Antonio Martino plaude al programma debenedettiano Con pochi "se" e senza "ma" L’intervento di Carlo De Benedetti ieri su queste colonne merita un commento non tanto per le singole proposte, su alcune delle quali non concordo, quanto per l’impianto complessivo. De Benedetti ha certamente ragione quando sostiene che le "cose per l’economia italiana vanno male. E non da oggi". Non è vero, infatti, che le nostre difficoltà attuali siano da imputare all’ultima crisi, sono iniziate molti anni prima; né è vero che, una volta archiviata l’attuale crisi, tutto andrà per il meglio.
La tesi dell’Ingegnere secondo cui le riforme economiche dovrebbero tornare in primo piano è a mio avviso difficilmente contestabile. Così come ineccepibile mi sembra l’idea che solo una "poderosa e massiccia" riduzione delle aliquote possa rimettere in moto l’economia. Le aliquote d’imposta dovrebbero essere ridotte "di molti punti percentuali" come dice De Benedetti per le ovvie ragioni che non fruttano molto all’erario e penalizzano pesantemente il lavoro, la produzione, il risparmio e l’investimento.
Quanto alla tesi di coloro che non si stancano di ripetere il logoro slogan secondo cui la situazione dei conti pubblici non cì consente di fare alcunché in materia fiscale, sarebbe difficile dissentire da De Benedetti quando afferma che il rigore è necessario ma non deve essere perseguito in modo da portare "il paziente Italia alla morte". Il fatto è che il risanamento delle pubbliche finanze deve essere perseguito con lo sviluppo economico e non a scapito di esso. Una crescita rapida del reddito nazionale può ridurre l’incidenza del deficit e del debito pubblico coniugando le esigenze di rigore finanziario con quelle della crescita. Nel 1990 l’Irlanda aveva un debito pubblico pari al 120 per cento del prodotto interno lordo, nel 1999 era sceso al 54 per cento; quello spettacolare successo non è stato ottenuto salassando l’economia con una fiscalità punitiva ma, al contrario, razionalizzando le spese pubbliche e riducendo le tasse. Sostenere che la spesa pubblica italiana sia incomprimibile è una clamorosa corbelleria; la verità è che mai nella storia d’Italia lo Stato ha avuto tanti soldi come adesso: nel 1900 la spesa pubblica assorbiva il 10 per cento del pil, negli anni Cinquanta il 30 per cento, oggi siamo a circa il 50 per cento. I nostri problemi non nascono dalla carenza di risorse assorbite dallo stato ma dall’eccessiva disinvoltura con cui vengono spese facendo apparire oculato e parsimonioso un marinaio ubriaco, De Benedetti concentra la sua attenzione sulla riforma fiscale e omette di considerare la necessità di riformare l’intero sistema di trasferimenti (con la lodevole eccezione del sistema pensionistico). Ma le riforme delle spese sono urgenti quanto quelle delle entrate.
Non possiamo continuare ad avere un insensato sistema di governo locale caratterizzato da un numero eccessivo di livelli e da una demenziale pletora di soggetti. Come se non bastasse il numero di comuni potrebbe essere tranquillamente ridotto a un quarto dell’attuale, dovrebbero essere abolite le province o le regioni (non ha senso averle entrambe), i parchi nazionali sono aumentati di venti volte in meno di un secolo, le autorità indipendenti prolificano più dei conigli e così via.
Ha ragione De Benedetti a sostenere che, in assenza di riforme, la spesa pubblica controllabile dal governo è soltanto una piccola percentuale del totale, ma è proprio per questo che la riforma delle spese non può essere rinviata. A legislazione vigente i conati di contenimento della spesa finiscono col lasciare a secco proprio i compiti essenziali dello stato: basti pensare all’assurdità di dedicare alla Difesa un miserrimo 0,8 per cento del pil quando lo standard Nato è il 2 per cento?
Un fisco troppo esoso
Tornando alle tasse, il punto di partenza di qualsiasi riforma è l’accettazione dell’ovvia considerazione che lo scopo del prelievo è quello di fornire alle pubbliche amministrazioni le risorse necessarie a espletare i loro compiti essenziali. Le tasse non sono la punizione dei nostri peccati, non devono porsi come obiettivo la realizzazione di non meglio precisate finalità di giustizia distributiva, né tutelare l’ambiente oppure orientare la produzione. Devono fornire all’apparato pubblico ì mezzi necessari al suo funzionamento. Se si accetta questa premessa ne segue l’ineludibile conseguenza che il prelievo è oggi eccessivo. Ha di fatto diviso i contribuenti in furbi (la maggioranza) che, spesso in maniera assolutamente legale, si guardano bene dal pagare il dovuto, e tartassati che sopportano a stento un carico che per molti di coloro prelude al fallimento. Questo fisco non colpisce chi è già ricco ma i moltissimi che potrebbero diventarlo, migliorando la loro posizione, e vengono impediti dal farlo per l’esosità delle aliquote.
Per queste ragioni credo che chiunque, da qualsiasi parte, sostenga la necessità di un profondo cambiamento merita il nostro plauso.

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