Finita la crisi, comincia la crisi del Tremontismo

Lasciate perdere il dibattito sul posto fisso. È una discussione accademica, in un paese che al momento non produce nemmeno posti precari. Ovviamente ha ragione Tremonti quando dice che il posto fisso è meglio del posto precario. E ovviamente ha ragione Marcegaglia quando dice che l’era del posto fisso è finita. È una chiacchiera filosofica sulla società ideale, del genere: preferireste vivere negli Usa o in Francia? Tanto stiamo in Italia. Non ha conseguenze pratiche. Non è che se vince Tremonti si riassumono i precari della scuola o se vince Brunetta si licenziano gli statali in esubero. Non cambierà nulla, anche perché non sono i governi che possono creare lavoro, né fisso né saltuario.
Dietro l’enorme polemica che ha suscitato la battuta del ministro dell’economia, e dietro l’evidente crisi di nervi che ha scatenato nel governo, fino al punto da costringere Berlusconi a un intervento che ricorda molto da vicino i «ma anche» di Veltroni, c’è dunque altro. Ben altro. Il fatto è che la linea di politica economica fin qui seguita da Tremonti, e per conseguenza dal governo, si sta esaurendo. Più finisce la crisi, e più quella politica va in crisi. Tremonti è riuscito infatti in questo anno a sfruttare il paradigma emergenziale e a mettervi al riparo il governo. La crisi finanziaria, nata altrove, imputata alla avidità del capitalismo americano e ai bonus dei banchieri, è parsa al centrodestra - non solo in Italia - un fantastico tappeto sotto il quale spazzare la polvere di casa propria.
Il mantra del governo in questi mesi è stato: ma che volete fare in Italia? Riforme, liberalizzazioni, innanalzamento dell’età pensionabile? In piena crisi? Siete pazzi. Qui si tratta solo di stringere la cinghia e i denti e tirare avanti. Il popolo capirà. E in effetti il popolo ha capito, e Tremonti ha tenuto bene la barra finora, questo bisogna riconoscerglielo. Default bancari non ce ne sono stati (anzi, le banche hanno potuto perfino difendere la loro autonomia dal governo rifiutando cortesemente i T. bond). L’occupazione non è crollata provocando disastri sociali (grazie alla vecchia cara cassa integrazione, pagata con i soldi per lo sviluppo delle regioni meridionali). Deficit e debito sono cresciuti, eccome, ma meno che nel resto del mondo, e per una volta tanto non siamo il malato d’Europa in fatto di conti pubblici. Il consenso al governo non è calato, e non è cosa da poco in tempi di recessione. Gli italiani hanno ragionato così: mettiamoci un tetto sulla testa e aspettiamo che la bufera passi, non è tempo da sogni di gloria. Ma ora la bufera sta passando, e i sogni di gloria che il centrodestra ha promesso, che sono il cuore stesso del berlusconismo, chiedono il saldo.
Sogni di gloria, poi, per modo di dire. Diciamo che l’Italia da quindici anni cresce meno del resto d’Europa, che in rapporto ai concorrenti si impoverisce sempre più (per ricchezza pro capite ci hanno sorpassato, dopo la Spagna, anche la Grecia e la Slovenia). Diciamo che quando c’è la crisi il nostro Pil cade più che altrove, e quando finisce la crisi la nostra ripresa è più debole che altrove. Diciamo insomma che il nostro è un sistema vecchio e fragile, con un’economia tutta concentrata in metà del paese, da Firenze in su, e tutta proiettata sulle esportazioni, dunque esposta a ogni bufera. Diciamo che avremmo bisogno di una ventata di riforme, esattamente il tipo di operazione che - grazie alla crisi, e non solo a causa della crisi - il governo ha evitato finora. Ma ora la crisi sta finendo.
Di conseguenza la maggioranza comincia a chiedere al suo ministro se intende eternizzare l’emergenza. Se intende andare avanti fino a fine legislatura così. I conti sono così devastati da non poter fare altro? Allora Tremonti deve dircelo. Oppure non sono così devastati, e allora perché non si fa altro? Nel centrodestra convivono due anime. Quella liberale che vorrebbe ora liberare risorse per usare la leva fiscale, inverare la promessa di sempre del berlusconismo, riavvicinarsi ai suoi ceti di riferimento - piccole imprese, partite Iva - da cui Tremonti sta divorziando, sia perché non abbassa le tasse sia perché gratta loro il nervo con l’eulogia del posto fisso (che al Nord si traduce statali e fannulloni). E l’anima statalista, che invece si chiede come mai il governo che ha puntato tutto sulla sicurezza debba subire lo sciopero dei lavoratori del comparto sicurezza, e che vorrebbe che Tremonti sganci un po’ di spesa pubblica. Tutte e due le ali, quella liberale e quella statalista, ce l’hanno dunque a morte con Tremonti, soprattutto perché si avvicinano le elezioni regionali, e gli chiedono: e ora, che si fa?
Il centrodestra ha qualche mese di tempo per costringere Tremonti a una risposta. E ce l’ha solo grazie al fatto che regge ancora il consenso intorno a Berlusconi. Poiché - come è noto - la gente cambia intenzione di voto più pensando al proprio portafoglio che alle escort altrui, e al momento si fida ancora di più del premier che dell’opposizione. Ma se nel giro di qualche mese, per esempio a cavallo con le regionali, finita la crisi e finito l’alibi, cominciasse a crescere lo scontento sociale? Se questi ceti produttivi in sofferenza di cui parla un giorno sì e l’altro pure il Corriere della Sera, secedono più o meno silenziosamente dal berlusconismo? È questo l’allarme nel centrodestra, ed è questa la ragione per cui Tremonti è chiamato a un redde rationem, e sempre più spesso è costretto a minacciare le dimissioni. E il tempo è poco, perché se comincia a calare il consenso Berlusconi non avrà più a disposizione l’arma letale che ha finora agitato: quella delle elezioni anticipate. E allora sarebbe il rompete le righe in una maggioranza in cui in tanti non aspettano altro. In un sistema politico in cui il cambio di regime è già stato studiato e preparato nei dettagli in più di una stanza.
Da un punto di vista psico-politico, la situazione attuale del centrodestra assomiglia molto a quella del primo governo Prodi, una volta raggiunto l’obiettivo dell’euro. Finita l’emergenza, completata la missione, Prodi non seppe più dove andare, che fare, che senso darsi. E cadde. Per quanto Berlusconi abbia ben altra capacità di levitare ad alta quota sull’opinione pubblica, anche il suo palloncino prima o poi si può bucare. Per questo si è aperta la crisi Tremonti. Ed è solo cominciata.
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